«Ancora una volta il mistero del Natale del Signore ci raggiunge e parla al nostro cuore con accenti che insieme sono antichi e nuovi – ha detto il vescovo Egidio in duomo a Piazza, all’omelia, presiedendo l’Eucaristia della notte di Natale, venerdì sera 24 dicembre –. Antica è la buona notizia che "Dio ha visitato e redento il suo popolo”; essa risuona ancora con lo stesso tono di gioia che aveva l’annuncio dato dall’angelo ai pastori: “Oggi per voi è nato un Salvatore”. Ma essa risuona nel nostro oggi come accadde nell’“oggi” dei pastori. Parla a voi, a me! A ognuno di noi, in questo nostro tempo difficile, complesso, rapido, vorticoso… Il fatto storico è di oltre 2000 anni fa; nella carne Gesù è nato una sola volta, ma lui, il Risorto, è eternamente vivo; e nella liturgia, tramite i sacramenti e le celebrazioni, ognuno può riviverne i misteri della sua vita e divenirne partecipe. Tutto è però condizionato dalla nostra percezione, dallo spazio che il nostro cuore riserva alla vera gioia del Natale; se essa viene realmente accolta dalla nostra vita. Perché, se il Natale autentico resta chiuso fuori dalla verità profonda di ciò che siamo, se non entra in contatto con la nostra storia personale e non la trasforma, allora quell’evento di 2000 anni fa impallidisce, ci dice meno della carta luccicante che avvolge i regali del Natale consumistico».
GESÙ, UN FATTO STORICO - «Quasi a sgomberare il campo da ogni dubbio, il vangelo stesso che abbiamo appena ascoltato ci offre innanzitutto le coordinate storiche della nascita di Gesù, per chiarire subito che Gesù è fatto storico, è il Verbo fatto carne, uomo come noi – ha proseguito il vescovo –. Così inizia, infatti, il testo di Luca: “In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città”. I primi due nomi citati sono quelli del potere terreno di allora. Augusto, il grande imperatore di Roma, e il suo rappresentante in Siria, Quirinio. Non è quello di Gesù, il primo nome della pagina del Natale, in Luca. Come in un’abile regia cinematografica, l’inquadratura parte da lontano, prima di arrivare alla grotta della natività. Parte da Roma, parte dal volto di Augusto».
IL “DIVUS AUGUSTUS” E IL DIO BAMBINO - «Augusto fu un grandissimo personaggio, inaugurò una nuova epoca storica.
Con la forza delle armi prima e di una sapiente riforma costituzionale poi, condusse la dilaniata Roma della tarda repubblica a diventare impero – ha continuato il vescovo –. Con il suo eccezionale carisma e intuito politico, riuscì laddove aveva fallito persino Giulio Cesare: pose fine alle guerre civili e accentrò tutto il potere nelle mani di una sola figura: quella dell’imperatore. Si fece adorare al-la stregua di un essere divino. La cosiddetta soluzione imperiale segnò i successivi quattro secoli di vita dell’Europa di allora, decidendo della vita e della storia di numerosi popoli e infinite persone. Non si dimentichi che il suo principato non fu solo il primo: fu anche il più lungo che la storia di Roma avrebbe mai ricordato (40 anni) e portò l’impero alla massima espansione. Conscio dell’importanza della sua azione militare e politica, egli stesso, di sua mano, scrisse le “Res gestae Divi Augusti”, ovvero le Imprese del Divino Augusto, poi incise nel bronzo, con cui volle celebrarsi a perpetua memoria. In esse parla delle sue vittorie, degli onori a lui tributati dal Senato e dal popolo romano, dei tanti giochi gladiatori da lui stesso pagati a divertimento del popolo, dei milioni di denari benignamente elargiti. Secondo la logica del mondo, tutto notevolissimo, importante, quasi fragoroso. Eppure... Eppure, che cosa è rimasto di lui? L’Ara pacis, il foro di Augusto, e tre statue, indubbiamente belle, che furono esposte nella mostra a lui dedicata in occasione dei 2000 anni dalla morte, nel 2014. Nulla più. Un nome nei libri di storia e confuso nella memoria di molti di noi insieme a quello di mille altri grandi del passato, più o meno remoto. Il suo mausoleo, il Mausoleo di Augusto, è in stato di abbandono da secoli. L’ipotetica cinepresa di Luca si sposta poi lentamente sulla terra di Palestina, sul viaggio di Maria e Giuseppe, causato da un editto proprio di Augusto, sulla nascita di un bambino inerme alla periferia del mondo di allora. È evidente il contrasto che Luca vuole creare. Dal grande Augusto, al piccolo, indifeso, oscuro figlio neonato di una coppia come tante, dal “divo Augusto” al vero Dio bambino. E dopo duemila anni dalla sua morte, abbiamo detto, di quell’imperatore resta ben poco. Il Bambino, invece, siamo qui e in ogni angolo del mondo ad adorarlo, a rendergli grazie perché ha realizzato la nostra salvezza e ha fondato la Chiesa, suo necessario strumento. Vien fatto d’attualizzare subito questo contrasto, fra il grande uomo di potere che lascia incerti segni dietro di sé e il bimbo marginale, senza mezzi, destinato a cambiare davvero la Storia del mondo e la vita degli uomini. E non voglio scomodare i potenti di oggi, le loro strategie, le loro glorie tanto più effimere quanto più si affannano a coltivarle e custodirle nel culto di sé e del-la propria persona».
RESTERÀ IL BENE COMPIUTO – «Voglio parlare di ciascuno di noi, delle nostre vite. Di ciò che potremmo paragonare ad Augusto e alla sua opera nelle nostre esistenze. Quella parte, per così dire, materiale e concreta che crediamo troppo spesso ne sia l’essenziale: il nostro impero. Il denaro, la carriera, il raggiungimento di piccole o grandi posizioni di potere, il soddisfacimento dei desideri materiali imposti dal consumismo, l’adeguamento ai modelli imperanti, l’ingordigia affettiva che ci porta a coltivare rapporti non sempre limpidi e corretti, magari favoriti dai nuovi, infiniti mezzi di comunicazione resi disponibili dalla tecnologia; un certo relativismo morale da “così fan tutti" con cui giustifichiamo zone d’ombra, inadempienze, stanchezze nel compimento dei doveri famigliari o professionali. Ecco, non so, alla fine della vita, cosa resterà di tutto questo egocentrismo che si manifesta e traveste in mille modi: temo poco, pochissimo. Se qualcosa rimarrà, se qualcosa renderà degno il nostro ricordo, sarà solo e soltanto il bene compiuto. Saranno gli esempi di correttezza, di altruismo, di nobiltà spirituale che avremo saputo incarnare. Saranno i frammenti di amore vero, puro, generoso, anche costoso, che avremo donato. Saranno, cioè, i momenti in cui avremo cercato di mettere in pratica l’esempio e l’insegnamento di quel povero bambino nato a Betlemme e venuto a salvare il mondo. Sarà lui, è lui a salvare le nostre vite, a indicarci condotte e comportamenti in grado di renderle meritevoli d’essere prima vissute, poi ricordate e infine salvate, perché, non scordiamolo mai, è sull’amore che verremo giudicati. Su niente altro che sull’amore. In questa notte, in ciascuno di noi convivono Augusto e il bambino di Betlemme: non abbiate il minimo dubbio su chi dei due debba avere spazio, farsi maestro, regnare nel cuore».
SCRUTARE IL CIELO COME I PASTORI – «Ma, per concludere, torniamo all’inizio del Vangelo che è stato proclamato, tanto simile a una cronaca fredda, impersonale – ha aggiunto il vescovo –. Per ben due volte si parla di censimento, quindi a un’operazione che rientra in quella che noi oggi potremmo chiamare “statistica”. Anche in questi giorni se ne ascoltano tante, di statistiche: sui consumi, sui vaccini, sui contagi, sui numeri della pandemia, sui poveri migranti, perfino sullo stato della fede nella società, la frequenza alla Messa prima del covid e durante il covid. È curioso notare, però, che gli occhi attenti dei funzionari statali che registrano la situazione dell’impero non sappiano cogliere il fatto nuovo di quella notte, il fatto che cambia la storia. Lo stesso accade anche oggi, inevitabilmente, forse. Le indagini dicono i fatti ma ignorano i cuori, le menti, le storie che stanno dietro i fatti. Le fatiche e le gioie, le meschinità e i gesti nobili. I destini che si compiono ciascuno secondo la sua traiettoria complessa, perché dove c’è cuore umano c’è sempre complessità. I burocrati contano i vivi e i morti, i prodotti e i soldi, soprattutto i soldi. Ma ignorano la verità profonda, quella che ci fa sognare e soffrire, ridere e piangere, quella che tesse la nostra vita ciascuna con la sua tinta prevalente. Non sanno cogliere l’azione di Dio nella storia. Va sempre così. Nella notte di Natale la grazia di vedere altro rispetto a ciò che vedono i censimenti non è concessa ai potenti: è concessa ai pastori, cuori semplici che faticano a vivere, vegliano e che guardano il cielo».
CERCARE I SEGNI – «Essi non sono soltanto i primi testimoni del mistero del Natale e della gioia del Natale; essi sono anche un modello: quando scrutano il cielo e si muovono per vedere il segno che è il Bambino, in realtà ci additano un esempio, un atteggiamento da tenere nella vita. Non fermarci alle cose della terra; saper sempre alzare gli occhi anche al cielo, almeno una volta al giorno, magari pregando prima di riposare; e inseguire il segno che è Cristo: semplice e muto, finché bimbo nella mangiatoia del Natale, ma poi Verbo incarnato, Parola di Dio viva ed esigente, Messia che percorre le strade della Palestina e agisce, provoca, scandalizza, e compie, appunto, segni. Segni ai quali, non diversamente dai pastori del Natale davanti al Bambino, noi dovremo dedicare occhi stupiti, desiderosi di adorare e capire per trovare un senso, consolazione nei momenti difficili e ragioni per la nostra speranza».
IL COMPITO DI TRAMANDARE IL VERO NATALE – «Accennavo prima al Natale consumistico dei regali e dei panettoni. Per molti, ormai, Natale è solo questo – ha concluso il vescovo –. Fatico a immaginare quanto possa essere vuoto questo tipo di Natale in cui si ignora e perde di vista Colui che va celebrato e venerato, il motivo vero e originario della festa. Noi cristiani, minoranza sempre meno numerosa, abbiamo il compito di conservarlo, il Natale vero; di salvarlo; di tramandarlo. Perché un giorno anche il mondo, vinta la sua stoltezza, torni a cercarlo e possa trovarlo. Intatto, da noi preservato e mantenuto vivo, anno dopo anno, seme prezioso depositato dentro la Storia in cui Dio ha scelto di incarnarsi e dalla quale l’uomo non può estro-metterlo».