Il Museo della Stampa di Mondovì in quattro reperti

Raccontare un museo in quattro reperti. Non necessariamente i più significativi, né quelli di maggior successo di pubblico. Non facciamo classifiche, ma ci interessano storie, curiosità, percorsi culturali. Così il Culture Club 51 visita un museo e ciascun collaboratore sceglie di raccontare l'oggetto che lo colpisce di più: per la sua storia, ma anche e soprattutto per la sua capacità di innescare altre storie. È sorprendente scoprire quanto lontano possa portare un qualsiasi oggetto che si incontra nelle sale di un museo. Ed è ancora più meraviglioso scoprire quali stravaganti curiosità e quali oggetti straordinari possano celarsi nelle sale di un qualsiasi museo del nostro territorio, anche magari dedicato ad argomenti sulla carta lontani dal nostro interesse. Sono ricchezze culturali che meritano di essere conosciute e valorizzate, dai monregalesi prima ancora che dai visitatori esterni.

Dalla fotografia alla tipografia

Macchina fotografica orizzontale in legno. Proprietà: Associazione Museo Universale della Stampa – Rivoli (TO). Donatore: Scuola “G. Vigliardi Paravia” Torino. Germania, seconda metà del XIX secolo

di PAOLO ROGGERO

Custodita al secondo piano del Museo, tra i vecchi strumenti di grafica e fotografia, questo macchinario di costruzione tedesca spicca per il suo aspetto e per le sue dimensioni. È poco più piccolo di un’utilitaria e risale alla seconda metà del XIX secolo. È interessante anche perché aveva una funzione davvero curiosa. Lo strumento era in dotazione originariamente alla scuola torinese “Vigliardi-Paravia”, storico istituto di tipografia e grafica. Viene presentato come una macchina fotografica orizzontale, l’aspetto induce a pensare a un banco ottico. In realtà si tratta di una macchina che veniva utilizzata per stampare immagini, con un procedimento davvero curioso, che ci ha svelato James Clough, che è stato il primo curatore del Museo della Stampa, insieme a Alessandro Bracco. Già docente di storia e cultura della tipografica al Politecnico di Milano, ci ha svelato: «Si tratta di una macchina che veniva utilizzata per realizzare delle xilografie. Nel dettaglio, il suo funzionamento prevedeva l’utilizzo di lastre di legno, che venivano inserite all’interno. Cosparse di materiale fotosensibile, dopo l’esposizione venivano lavorate da un operatore, che le scavava e faceva emergere i rilievi. Una volta intagliata, questa lastra poteva essere utilizzata per realizzare delle stampe». Luca Volpe, già docente di storia della fotografia all’Università di Venezia, ci aiuta a contestualizzarla: «Questa macchina va a inquadrarsi in un periodo particolare della storia della fotografia, immediatamente successivo all’invenzione del dagherrotipo, in cui la fotografia, tecnologia nuova, ha avuto tantissime applicazioni in vari ambiti, tra cui la tipografia. Questo tipo di macchine arriva per lo più dalla Germania, dove all’epoca c’era una grande produzione di questo tipo di strumenti. Credo comunque che si tratti di una macchina molto rara. Sono state prodotte per pochissimi anni».

Caratteri resistenti

Platina Boston. Costruzione Stati Uniti, seconda metà del XIX secolo. Proprietà: associazione Museo Universale della Stampa di Rivoli (To). Donatore: Ernesto Saroglia, Torino

di LORENZO BARBERIS

Il Museo della Stampa, come molti musei nostrani, custodisce pezzi preziosi, a volte non così immediatamente appariscenti. Prendiamo la Pedalina Boston. Le platine o pedaline sono macchine per piccole tirature di stampati dai formati ridotti, azionate a pedale. La piattaforma superiore, a cerchio, gira per distribuire l’inchiostro: nel telaio si inserisce la composizione, questa viene inchiostrata e la parte inferiore, in legno o metallo, è la base che, sollevata, esercita la pressione. La “Boston”, in particolare, è priva di calamaio: l’inchiostro si distribuisce direttamente sulla piastra tonda con la spatola; inoltre è azionata a manovella. All’apparenza, una macchina storica come le altre. Ma c’è un qualcosa che crea una sottile emozione nell’osservare quel marchingegno per noi ormai lontano ed enigmatico, quasi una fantasia steampunk: si tratta infatti da una macchina utilizzata dalla Resistenza per stampare i propri comunicati. Li componeva a valle un tipografo che collaborava coi partigiani; poi le staffette li trasmettevano in montagna dove c’era la macchina e lì, relativamente più al sicuro, si stampava. Con un metodo simile doveva essere stampato anche il foglio partigiano di Mondovì, “La Rinascita d’Italia”, di cui presenta una scheda il sito stampaclandestina.it, che censisce i fogli resistenziali. Nata su iniziativa di Don Bruno e dei fratelli Bassignana, esce dal 20 luglio al 19 ottobre 1944, con cadenza settimanale. I primi nove numeri sono stampati presso il santuario di Santa Lucia a Villanova Mondovì, e sono vicini, anche se non strutturalmente, alla terza divisione autonoma “Alpi” di Piero Cosa e Dino Giacosa; gli ultimi quattro numeri sono composti presso il rifugio Mettolo Castellino al Pian della Tura sotto la direzione dello stesso Giacosa. Poi i rastrellamenti nazifascisti impediscono altre uscite. In questi tempi particolari (mentre scrivo, la stampa riporta la notizia del furto della medaglia d’oro della resistenza di Alba, forse con carattere ideologico) pensare alla storia di quest’oggetto non può non suscitare un’emozione.

Il cuore della prima “Gazzetta del Popolo”

Pianocilindrica “L’indispensabile” Costruzione: Ippolyte Marinoni, Parigi, metà del XIX secolo. Proprietà: associazione Museo Universale della Stampa di Rivoli (To). Donatore, Vincenzo Capello - Torino

di PAOLO ROGGERO

Storica testata piemontese, la “Gazzetta del Popolo” è stata un punto di riferimento per l’informazione nazionale, arrivando a tirare ben 180.000 copie nel suo momento di massima diffusione. Fu fondato nel 1848, a indirizzo nazional-liberale: nella sua storia ha raccontato l’Unità d’Italia, le due guerre mondiali e buona parte della storia della Repubblica, fino agli anni Ottanta, quando chiuse definitivamente i battenti. Al Museo della Stampa è conservato il cuore dei primi anni di quella testata, una macchina la cui importanza è riassunta già nel soprannome che gli affibbiarono i redattori. “L’indispensabile” era un’ingombrante macchina pianocilindrica, che consentiva la stampa in serie di fogli di grande formato. In breve, questi strumenti erano il punto di riferimento della tipografia dei giornali, prima che questa diventasse una vera e propria industria, con l’introduzione delle rotative, con incremento dei volumi di tiratura e diminuzione di tempi di stampa. La pianocilindrica poteva essere attivata a mano dagli operatori (almeno due). “L’indispensabile” è un pezzo di storia del giornalismo piemontese: racconta di un’epoca in cui il giornale era un centrale veicolo di diffusione di notizie, ma anche di opinioni, e in cui il lavoro di una redazione era ancora una questione tecnico-meccanica, tra pagine disegnate e misurate a mano; articoli scritti a penna e ordinati carattere per carattere nelle matrici; immagini rarissime; disegni e marchi pubblicitari impressi sui clichè zincati. Inevitabilmente, la storia del giornalismo è uno degli itinerari principali che si possono percorrere al Museo della Stampa e le tappe ci sono proprio tutte: dai torchi alle piano-cilindriche, da queste alle rotative, dalle lynotipe (che consentono una composizione delle pagine più veloce e industriale) alla video-composizione e alla stampa “offset”. Nell’era dell’informazione capillare questi appaiono veramente come i cimeli di un mondo ormai scomparso, ma il cui fascino non si è mai spento: un’epopea di grandi testi, grandi racconti, ma anche un punto di osservazione unico sul mondo.

La pedalina di Totò e Peppino

Platina Minima mod. BB18x25 . Costruzione Ditta Ernesto Saroglia, Torino, secondo decennio del XX secolo. Proprietà associazione Museo Universale della Stampa di Rivoli (To). Donatore: Bruno Dante

di GIOVANNI RIZZI

“Siamo noi, siamo in tanti che ci nascondiamo di notte... per paura dei linotipisti...” Lucio Dalla ci ricorda in “Com’è profondo il mare” la dura vita del tipografo che si svolge prevalentemente nelle ore piccole del giorno, quando le grandi rotative attendono dalle redazioni gli articoli sui fatti del giorno da mandare in stampa. Ci sono naturalmente anche le più minute tipografie di quartiere, storiche botteghe, dove l’onesto stampatore si pone a disposizione delle esigenze dei clienti, attraverso gli ultimi ritrovati tecnologici che il mondo della litografia ha offerto nel corso della storia. Tra i bellissimi modelli esposti al Museo della Stampa di Mondovi sono presenti anche numerose pedaline, utilizzate fino a pochi decenni fa: servivano per piccole tirature di stampanti dai formati ridotti che con un sistema di rulli azionati da un pedale portava l’inchiostro dal calamaio a un disco rotante, e da esso alla forma in verticale. Tra queste la “Minima” che la fantasia degli sceneggiatori Age& Scarpelli accosta simpaticamente e un po’ vigliaccamente a un’impresa di finzione non proprio lodevole. Il modello in questione è infatti quello che appare nel film “La banda degli onesti” di Camillo Mastrocinque, dove la coppia Totò/Peppino sfrutta le ore notturne, questa volta, per furtive riunioni, in cui come è noto, riescono a stampare false banconote da 10 mila lire con l’intento di metterle in circolazione e risollevarsi da una stentata condizione economica. “La banda” è effettivamente onesta fino in fondo, si ricrederà, e delle banconote false nessuna verrà messa in circolo, buttate infine insieme al cliché in un falò. La pedalina compare in diverse sequenze, insieme ad altre belle macchine utilizzate “impropriamente” da Totò/Bonocore per infastidire il suo proprietario De Filippo/Lo Turco titolare della tipografia. Alla fine dei conti l’integrità morale del tipografo resterà intatta alle tentazioni, e il macchinario farà comunque un figurone, svolgendo egregiamente il suo dovere: con una stampa dei falsi talmente fedele da riuscire effettivamente a ingannare l’occhio.

Per saperne di più:Il Museo della Stampa di Mondovì

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