Sabato 3 agosto, a Mondovì Piazza, la solenne celebrazione di San Donato d'Arezzo, co-patrono della città a cui è intitolata la Cattedrale. Alle 18 si è tenuta la processione delle Confraternite con la Filarmonica “Il Risveglio” di Dogliani, dopo aver pregato i Vespri nella Chiesa della Misericordia in via Vico, e alle 18,30 la messa presieduta dal vescovo mons. Egidio Miragoli, alla presenza anche delle autorità civili della città. Dal vescovo, un'esortazione a guardare e recuperare la figura, la storia e l'esempio di San Donato. «Siamo qui oggi a celebrare il nostro Santo Patrono, e mi piace muovere riflettendo sulla condizione particolare in cui egli e la devozione per lui si trovano – ha detto il vescovo nell’omelia in Cattedrale sabato sera –. Non ci si pensa mai, ma il nostro San Donato condivide il suo ruolo di patrono della Città con una presenza magnifica e preziosa, ma anche un po’ ingombrante, sia detto con tutto il rispetto: quella di Maria, della ‘Regina Montis Regalis’, patrona della Diocesi. Il paragone non suoni irriverente: ma capita anche nella vita, quando ad esempio nelle coppie una forte personalità finisce per relegare in secondo piano, anche senza volerlo, la controparte. Sono dinamiche della vita e, potremmo dire, anche della storia e della fede. Probabilmente, a molti di noi viene istintivo pregare in prima battuta la nostra Madonna, a Lei ci riesce naturale rivolgerci nelle difficoltà o quando dobbiamo ringraziare per una gioia. San Donato, invece, rimane qui, dimenticato; un po' come la Cattedrale è assai più riposta, meno conosciuta e meno visitata del Santuario di Vicoforte. Tutto ciò, però, non significa affatto che San Donato non meriti memoria, devozione e gratitudine. La fedeltà della nostra gente nei suoi confronti è provata, del resto, da un dettaglio: la storia di questa Cattedrale prevede quattro edifici, ma ogni volta la Cattedrale fu dedicata a San Donato».
Quattro cattedrali, uno stesso patrono
«Proviamo allora a ripercorrere la storia della nostra Cattedrale e del legame con il suo patrono. Ebbene, la costruzione della antica pieve di San Donato sul ‘Monte di Vico’ avvenne contemporaneamente al formarsi del nuovo Comune di Mondovì in epoca medievale – ha continuato il vescovo –. Quando Mondovì nel 1388 divenne Diocesi, tale pieve fu eretta in Cattedrale, per essere poi rifatta in stile rinascimentale cento anni dopo, nel 1490 dal vescovo Amedeo Romagnano. Questa era una costruzione grandiosa, che purtroppo ebbe vita breve: l’edificio, consacrato nel 1514 e dedicato a San Donato, non molti anni dopo venne abbattuto per ordine drastico del duca Emanuele Filiberto che volle trasformare il colle di San Donato in cittadella fortificata. La Cattedrale fu allora trasferita vicino al vescovado e ospitata nella chiesa gotica dei francescani conventuali, risalente al XV secolo, una chiesa a cinque navate, di fronte all’ospedale di santa Croce. Tuttavia nella prima metà del XVIII, la chiesa gotica divenuta ‘Cattedrale’, nel suo complesso manifestava molte carenze: vetusta nella sua struttura e trascurata dalle famiglie nobili che avevano antichi diritti di patronato su molti altari e sepolcri, ma non provvedevano adeguatamente alla manutenzione. Dopo lungo dibattito, se restaurare o abbattere, si giunse ad abbracciare il progetto del Gallo per una nuova costruzione, l’ultima fatica del geniale architetto. Posta la prima pietra il 29 giugno 1744, la Cattedrale venne consacrata il 4 settembre 1763. Come già ricordato, quattro edifici, dunque, furono ‘Cattedrale’, ma ogni volta la nostra Cattedrale è dedicata a San Donato, patrono magari meno invocato di Maria, Regina del Monte Regale, ma amato nei secoli, e nei secoli confermato nel suo ruolo. Anche per tutto questo, da parte nostra, vorremmo che la sua vita e la sua testimonianza fossero sempre meglio conosciuti, e il riferimento a lui, nella Cattedrale a lui dedicata e in Città, non sia puramente formale».
Donato, un testimone della fede
«Che cosa ci dice la sua figura, se oggi dunque la contempliamo e la interroghiamo, ultimi eredi di una ininterrotta vicenda di fede? Io credo che il tratto più significativo di San Donato, e più utile alla nostra riflessione su di lui, sia il suo essere stato martire – ancora il vescovo –. In origine, la parola greca ‘mártyros’ significava ‘testimone’. Quando nei processi erano introdotti i testimoni a deporre, entravano appunto i ‘mártyroi’, coloro che sapevano, perché avevano visto o udito. E così sono designati nei testi delle orazioni giudiziarie che ci sono pervenuti. La coloritura che ha per noi oggi la parola martire, che connota un’idea di sofferenza e di morte, viene dalle vicende del Cristianesimo delle origini, quando essere ‘testimoni’ significava patire, e spesso dare la vita. Senza dimenticare che ciò avviene ancora in diversi Paesi - tanto che si deve ritenere che i cristiani sono la comunità religiosa più perseguitata del mondo - di norma, nel nostro contesto e nel nostro tempo, essere cristiani e testimoniarlo non espone a rischi gravi. Ma forse proprio per questo ancora più urgente è chiederci se noi sappiamo essere testimoni di Cristo, e se vogliamo esserlo. Perché, se è vero che nella nostra società ben difficilmente dirsi cristiani può comportare il pericolo di perdere l’incolumità, è altresì vero che una simile presa di posizione può relegarci nella solitudine o farci oggetto di incomprensione, se non di dileggio. Conseguenze certo meno gravi della morte o del patimento fisico, ma indubbiamente e terribilmente insidiose».
Testimoniare senza debolezza e codardia
«Credo di non dire nulla di sconvolgente, se affermo che il pensiero cristiano nel mondo occidentale è oggi fortemente minoritario, quasi intimidito, spesso accondiscendente e disposto a scendere a compromessi. Oppure a chiudersi nel silenzio. Mi pare abbastanza evidente che non si sentano più forti prese di posizione, in difesa di alcuni capisaldi della dottrina cristiana. Nella babele contemporanea, detta e scritta sui social e nelle televisioni, sui giornali e alla radio, la voce dei testimoni di Cristo si perde, fra debolezza e codardia. Talora, gli stessi cristiani – per non parlare di teologi e vescovi – paiono confusi, divisi al loro interno, smarriti circa le verità che dovrebbero essere non negoziabili e su cui invece quotidianamente transigono o balbettano, nel timore di essere bollati come rigidi conservatori incapaci di comprendere i tempi e le esigenze degli uomini».
(Testo completo dell’omelia su “L’Unione” in formato cartaceo, in uscita il 21 agosto)