Il villanovese Andrea Rosso ordinato diacono

Domenica pomeriggio in cattedrale a Mondovì. Un impegno su più fronti, senza riserve. L’omelia del vescovo mons. Egidio Miragoli che sottolinea le promesse del neo-diacono, guardando a quanto attende nel ministero ordinato

Cattedrale gremita domenica pomeriggio (Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni), con una incoraggiante presenza di giovani ed adolescenti, per accompagnare Andrea Rosso, 28enne di Villanova Madonna del Pasco, nell’importante del diaconato, ricevuto per l’imposizione delle mani da parte del vescovo mons. Egidio Miragoli, guardando quindi al prossimo futuro traguardo del presbiterato: ed al fianco del nostro vescovo, anche mons. Luciano Pacomio e mons. Sebastiano Dho, nonchè numerosi sacerdoti e diaconi permanenti. Per una liturgia che ha dato evidenza soprattutto – come anche ricordato da mons. Egidio Miragoli nell’omelia – alle promesse ed agli impegni che il neo-diacono va ad assumere. Le credenziali per l’ordinazione di don Andrea Rosso sono state illustrate da don Roberto Ghiani, vice-rettore dell’Almo Collegio Capranica, ove da un paio d’anni lo stesso neo-diacono vive a Roma, impegnato nel completamento degli studi teologici ora all’Ateneo Sant’Anselmo in Sacramentaria, ma anche presenza positiva nella stessa comunità di studenti e nell’esperienza pastorale nella parrocchia della Gran Madre di Dio al Ponte Milvio. Uno scrosciante applauso ha infine sottolineato, a celebrazione conclusa, la gioia di sentirsi tutti al fianco di don Andrea nell’avventura nella Chiesa che ora sta prendendo una forma precisa e vincolante. I canti sono stati curati dalla Cantoria della parrocchia della Cattedrale e dalle Corale Laus Jucunda, coinvolgendo l’assemblea tutta. A don Andrea rinnoviamo l’augurio di fare del suo meglio come diacono nella Chiesa, preparandosi così al presbiterato di domani.

L'omelia del vescovo Egidio Miragoli

1. Cantate al Signore perché ha compiuto meraviglie
Siamo nel tempo di Pasqua ed è la Domenica delle Vocazioni: due ottime ragioni per vivere questa celebrazione all’insegna della gioia e, oserei dire, dello stupore. Perché, come dice il Salmo 117 e come abbiamo ripetuto nel ritornello, “il Signore ha compiuto meraviglie” e il nostro cuore può elevare dunque un “canto nuovo”.
Meraviglia è la Pasqua di Resurrezione, naturalmente, vittoria sulla morte e sul male. Ma stiamo alle parole delle letture: meraviglia è la pietra scartata dal costruttore che diviene testata d’angolo, presente nel Salmo e nel brano degli Atti degli Apostoli; e meraviglia è la sollecitudine d’amore del buon pastore che dà la vita per poi riprenderla di nuovo, descritta da Giovanni nel suo vangelo. Due immagini non nuove, ma la cui efficacia non conosce usura né attenuazioni: è bello e confortante, infatti, pensare Gesù alla stregua di una pietra che i costruttori hanno creduto bene eliminare, cioè che i capi del popolo hanno mandato a morte, ma che poi è divenuta testa d’angolo per un nuovo edificio, cioè che Dio ha resuscitato per fondare la sua Chiesa e un’alleanza nuova con l’umanità; ed è bello sapere che Gesù è il buon pastore, cioè l’amico e il custode delle pecore che dona loro la propria vita e le ama di un amore che è per sempre! Ma, oggi, la nostra Chiesa locale ha un altro, particolare motivo di esultanza: l’ordinazione diaconale di Andrea, cioè l’evento di un giovane che si consacra a Dio per i fratelli. Anche questa è meraviglia concreta che Dio compie fra noi e per noi, anche questo deve essere motivo di canto nuovo, di canto di gioia per noi e per la nostra chiesa. Dio chiama sempre, anche oggi, anche in questo nostro tempo distratto e a volte indifferente. E ancora oggi qualcuno è capace di ascoltare e di rispondere. Questo ci ricorda la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni. Dunque, intensifichiamo la preghiera, la catechesi, rendiamo più gioiosa la nostra testimonianza sacerdotale.
2. Gli impegni del diacono
La liturgia, naturalmente, offre numerosi spunti di riflessione.
In questa circostanza, però, vorrei soffermarmi sugli impegni fondamentali che l’ordinando assume prima dell’imposizione delle mani, perché in essi si manifesta bene il senso del “consacrarsi a Dio e ai fratelli”. Li sentiremo declinati subito dopo l’omelia, sicché mi piacerebbe che le mie parole aiutassero a coglierne in pienezza il senso.
Muovo da un aspetto generale: siamo nell’epoca dei diritti, tutti oggi rivendicano diritti, mentre qui il candidato si impegna con Dio e con i fratelli all’assolvimento di svariati doveri. Il futuro diacono promette, si impegna, si dona: è la logica eversiva, generosa e controcorrente del Vangelo, la logica di Gesù che dà la vita, e che, imitata, dà senso alle nostre vite. È la logica del buon pastore che deve diventare la logica del discepolo.
Il celibato
Se poi scendiamo nel merito degli impegni che Andrea sta per assumere davanti alla Chiesa, anzitutto incontriamo quello del celibato. Io gli chiederò: “Vuoi, in segno della tua totale dedizione a Cristo Signore, custodire per sempre l’impegno del celibato per il regno dei cieli a servizio di Dio e degli uomini?”. Domanda capitale, che tocca in maniera diretta ciò che Andrea farà della sua vita e del suo corpo, della sua capacità di amare e di spendersi “senza divisioni per Cristo e per la sua Chiesa nella disponibilità piena e gioiosa del cuore per il ministero pastorale” (Pastores dabo vobis n.50).
Il documento Pastores dabo vobis circa la formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali invita a conoscere, stimare, amare e vivere il celibato nella sua vera natura e nelle sue vere finalità, quindi nelle sue motivazioni evangeliche, spirituali, pastorali. Il discorso sarebbe complesso, ma qui val la pena ricordare ad Andrea, e a tutti noi presbiteri, le affermazioni principali. Le riassumerei in quattro. Innazitutto: Lo stato di celibato è un dono e una grazia di Dio, dono e grazia che scaturiscono dal battesimo, ma che richiedono una specifica vocazione che il Signore non dà a tutti, ma solo ad alcuni prescelti. Naturalmente il “dono” di Dio all’uomo deve essere conquistato mediante la sua risposta e il suo impegno, così che il risultato finale, quand’è positivo, appare ed è totalmente, anche se sotto diversi aspetti, e dono di Dio e conquista dell’uomo.
Secondo: “La realtà della famiglia è benedetta, naturalmente, ma nella realtà nuova ed escatologica portata da Gesù, ciò che è decisivo è mettersi al servizio del regno, è seguire Gesù fino ad abbandonare tutto” (E. Bianchi).
Terzo: La decisione celibataria consiste nell’impegno definitivo e non incerto, perenne e non provvisorio o temporaneo, di offrire il proprio amore sponsale spirituale a Cristo, facendo continenza di tutte le altre dimensioni sessuali.
Quarto: Il celibato per il regno va sempre vissuto castamente (ovvero, presuppone la castità) ma in una rinuncia all’esercizio sessuale che comporta anche la solitudine derivante dal non coniugarsi con nessuno, né psicologicamente, né affettivamente né genitalmente. Per essere esplicito fino in fondo: l’impegno del celibato non comporta solo il non coniugarsi, il non contrarre matrimonio, il non avere unioni carnali. È molto di più: è essere spiritualmente liberi poiché vincolati a Cristo; è essere spiritualmente autonomi e quindi, ad esempio, anche capaci di non lasciarsi invischiare nelle subdole quanto gratificanti dipendenze consentite dai moderni mezzi di comunicazione scritta nonché dai social: forme che, se pure non prevedono incontri fisici, tuttavia possono ingabbiare mente e cuore, sottrarre tempo ed energie, condizionare i giorni e le notti.
Non credo sia fuori luogo ricordare ciò che sentiamo ad ogni Eucarestia: “Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”. Meravigliosamente, oggi Andrea si pone in una secolare tradizione di uomini e donne che - per amore di Cristo e dei fratelli - hanno fatto lo stesso del loro corpo: lo hanno offerto in sacrificio, dedicato all’amore per gli altri e per la comunità, al bene di chiunque incontravano sul loro cammino.
L’impegno della preghiera
Un secondo, capitale impegno: l’ordinando promette che pregherà per la Chiesa e il mondo intero, ogni giorno. Gli chiederò, infatti: “Vuoi custodire e alimentare nel tuo stato di vita lo spirito di orazione e adempiere fedelmente l’impegno della liturgia delle ore, secondo la tua condizione, insieme con il popolo di Dio per la Chiesa e il mondo intero?”.
Pregare è intercedere per la chiesa e il mondo intero; è farsi ponte fra terra e cielo; significa avere a cuore la realtà concreta - locale e non solo - e porla davanti agli occhi di Dio perché la guardi con sollecitudine e misericordia. Se crediamo nell’efficacia della preghiera, non possiamo non sapere che si tratta di qualcosa di grande, se non di decisivo per le sorti dell’umanità: un compito tanto più alto quanto più nascosto e dimenticato.
L’impegno di dedicarsi al servizio della nostra Chiesa
Infine, con il diaconato, l’ordinato viene “incardinato” nella Chiesa particolare, nella Diocesi. Questo aspetto che ha, insieme, rilevanza giuridica e spirituale lo possiamo ravvisare nella promessa di obbedienza al vescovo che conclude gli “impegni dell’eletto”. Chiederò infatti ad Andrea: “Prometti a me e ai miei successori filiale rispetto e obbedienza?”. Con la promessa di obbedienza al vescovo l’ordinando si pone al servizio del vescovo e della diocesi. L’incardinazione è un vincolo giuridico, indubbiamente. Ma soprattutto esprime appartenenza a una chiesa particolare, significa che una vita, le sue potenzialità e le sue energie sono devolute ad essa, in un misterioso legame che diventa condizione di fedeltà e di vita. Modalità perché la vita stessa si realizzi pienamente. In cambio, e anche questo mi pare molto bello, il vescovo e la diocesi dovranno, a loro volta, prendersi cura del diacono e poi del presbitero. I documenti post conciliari traducono il termine “incardinazione” con “dedicazione alla chiesa particolare”, ed esprimono bene il suo senso: “Occorre considerare come valore spirituale del presbitero la sua appartenenza e la sua dedicazione alla Chiesa particolare. Queste, in realtà, non sono motivate soltanto da ragioni organizzative e disciplinari. Al contrario, il rapporto con il vescovo nell’unico presbiterio, la condivisione della sua sollecitudine ecclesiale, la dedicazione alla cura evangelica del popolo di Dio nelle concrete condizioni storiche e ambientali della chiesa particolare sono elementi dai quali non si può prescindere nel delineare la figura propria del sacerdote e della sua vita spirituale” (PDV 31). Per questo, sia il nostro ministero sia la nostra spiritualità sono chiamati ad assumere ispirazione e comportamenti, scelte pastorali, elementi caratteristici che fanno parte del patrimonio di santità e della vicenda storica della nostra Chiesa.
Sintesi di tutto ciò, la promessa di obbedienza, dunque, impone ma ad un tempo offre al nuovo diacono le condizioni per fare della sua vita una vita pienamente vissuta e spesa, poiché donata per sempre a una realtà e non soggetta alla volubilità e al desiderio di nuovo.
Anche questa pare una verità che i tempi hanno scordato, ma verità rimane: si dà frutto nella fedeltà, nella perseveranza, nell’essere seme che muore nella terra che ha scelto, per sempre.
Un tesoro da custodire, insieme.
Infine, vorrei concludere con due immagini che spero efficaci. La prima è di San Paolo, che scrivendo ai Corinzi dice: “Noi abbiamo un tesoro in vasi di creta” (2 Cor 4, 7).
Il termine “tesoro” esprime bene la grandezza del dono della vocazione, così come
la metafora dei «vasi di creta» icasticamente descrive la fragilità delle mani degli uomini cui questo tesoro è affidato: realtà cui la storia di sempre, da Pietro e Giuda in poi, offre inesausta testimonianza; e realtà dalla quale non può non discendere l’impegno costante a vigilare e tenere viva la consapevolezza del dono e insieme dei nostri limiti.
La seconda immagine è invece offerta dalla Esortazione apostolica post–sinodale di Giovanni Paolo II, Pastores gregis. Si parla del presbitero, ma quanto andremo citando si applica indistintamente anche al diacono, poiché il gesto evocato è lo stesso nei due riti di ordinazione.
Vi si legge:
«Ogni Vescovo diocesano ha tra i suoi primi doveri la cura spirituale del suo presbiterio (…) Il gesto del sacerdote che pone le proprie mani nelle mani del Vescovo, nel giorno dell'ordinazione […], professandogli “filiale rispetto e obbedienza”, a prima vista può sembrare un gesto a senso unico. Il gesto in realtà impegna entrambi: il sacerdote e il Vescovo. Il giovane presbitero sceglie di affidarsi al Vescovo e, da parte sua, il Vescovo si impegna a custodire queste mani» (PG 47).
È il valore simbolico delle mani nelle mani, naturalmente, che ci interessa. Esse indicano allo stesso tempo un affidarsi dell’ordinando al vescovo e una promessa di sollecitudine da parte del vescovo all’ordinando. Senza delimitazioni di campo. Perciò, il diacono oggi (e il presbitero, domani) come non è solo nel vivere il suo ministero, così non dovrebbe essere lasciato solo nel vivere il dono e l’impegno del celibato e, più in generale, la sua scelta e la sua condizione. Sempre lo stesso documento dice:
«Nel presente contesto sociale, il Vescovo deve essere particolarmente vicino al suo gregge e innanzitutto ai suoi sacerdoti, paternamente attento alle loro difficoltà ascetiche e spirituali, prestando loro l'opportuno sostegno per favorirne la fedeltà alla vocazione ed alle esigenze di un'esemplare santità di vita nell'esercizio del ministero».
Perché ciò possa accadere, vi chiedo di pregare – oltre che per Andrea – anche per me, in questa celebrazione: pregare per il Vescovo, infatti, sarà lo stesso che pregare per il bene della nostra Chiesa e dei nostri diaconi e sacerdoti, ovvero, c’è da sperare, per il bene comune.
+ Egidio, vescovo

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