La Messa in italiano, dopo mezzo secolo

Esattamente cinquant’anni fa, 7 marzo 1965. Rivisitazione, con la riflessione di mons. Sebastiano Dho, una svolta decisiva nella Chiesa dopo il Concilio.

Non è facile a chi, per sua fortuna, oggi conta meno di 60 anni, riuscire a ricordare e meno ancora a rivivere quello che è stato per noi, che i 60 li abbiamo superati e magari di molto, un evento ecclesiale di prim’ordine: la liturgia, specie la celebrazione eucaristica non più in latino ma in lingua italiana. Questo passaggio, che non è per nulla esagerato definire “storico”, è datato precisamente 7 marzo 1965, prima domenica di Quaresima in quell’anno. Per decisione dei nostri vescovi infatti in quel giorno entrava in vigore la riforma liturgica riguardante la s. Messa, in un primo tempo obbligatoria solo per celebrazioni festive ed in seguito per tutte. Questo cambiamento, diciamolo pure per molti sconcertante, era stato reso possibile dalla scelta del Concilio Vaticano II che il 4 dicembre 1963, prima tra tutte, aveva approvato a larghissima maggioranza, praticamente all’unanimità (2.147 sì, compreso quello di Lefebvre! ed appena 4 no), la Costituzione sulla riforma liturgica che al n° 36 prevedeva appunto, a giudizio della Conferenze episcopali, l’uso delle lingue nazionali, al posto del latino. Soprattutto richiedeva una migliore impostazione della liturgia stessa della Messa, con una maggiore ricchezza della Parola di Dio, nelle letture bibliche ed altri miglioramenti rituali. Tutto questo, al fine che in modo particolare stava a cuore dei Padri conciliari, tanto da ripeterlo almeno per tre volte nel testo approvato, quello cioè di una partecipazione liturgica di tutti, in modo “consapevole, attivo e fruttuoso”, non assistendo “come estranei e muti spettatori a questo mistero di fede”. Ora era evidente che, per poter realizzare questo tipo di partecipazione autentica e doverosa, era necessario poter comprendere ciò che nella Messa viene letto e detto, per cui il passaggio alla lingua corrente s’imponeva logicamente.
Poiché siamo ormai a 50 anni da questa scelta significativa e determinante, vale a dire in concreto due generazioni che rappresentano di fatto la maggioranza degli attuali fedeli partecipanti alla liturgia e che non possono ricordare le celebrazioni in latino, forse non è inutile, da parte di chi invece c’era eccome!, richiamare almeno con alcuni accenni quella che era allora la reale prassi in merito. Spesso infatti da parte di qualche anziano nostalgico ma più sovente – e questo è peggio – di più giovani ideologicamente prevenuti, ad opera di facili detrattori della riforma liturgica conciliare, vengono propalate molte imprecisioni o addirittura vere e proprie falsità al riguardo. Si dice infatti ad es. che le celebrazioni in latino sapevano più di mistero, confondendo il mistero cristiano con quello pagano o magico; così pure che non vi erano abusi, come vi sarebbero ora, ovviamente sempre da evitarsi, dimenticando – volutamente? – che allora era corrente la battuta, riferita ai riti tridentini, ”ogni sacrestia ha la sua liturgia!”.
Ma qual era la reale situazione delle celebrazioni eucaristiche negli anni ’60, di molte nostre parrocchie, a parte alcune in cui pastori più illuminati e laici più sensibili già avevano cercato con messalini bilingue ed altri sussidi di ovviare alle difficoltà di partecipazione liturgica? Se è lecito e forse doveroso, a chi ha vissuto in prima persona ed in piena responsabilità quel passaggio, ricordare semplicemente a quelli che non c’erano e perciò esposti a credere a sogni nostalgici o a fantasie varie, vorrei accennare appena al modo assai comune di “assistere” (questo d’altronde era il termine ufficiale per il precetto festivo) alla Messa. Chi scrive ordinato, nel 1958, quindi con 7 anni di celebrazioni in latino, alla data del 7 marzo 1965, parroco di due comunità di quasi montagna, ricorda bene la prassi trovata in loco: il sacerdote iniziava, in latino naturalmente, con “Introibo ad altare Dei”, il dialogo, sottovoce, con i chierichetti; contemporaneamente dai banchi si levava forte un’altra voce quella di un fedele, quasi sempre una donna peraltro sinceramente devota (d’altronde che avrebbe potuto fare di meglio?) che intonava il Rosario, accompagnando il rito portato avanti in parallelo dal celebrante, naturalmente di spalle all’assemblea sempre sottovoce, comprese le letture bibliche comunque in latino, con un’interruzione per la famosa predica. Si riprendeva poi il Rosario con particolari giaculatorie al momento della consacrazione, accompagnata da energiche scampanellate dei chierichetti, anche allo scopo di fare tacere eventuali chiacchiere da parte di alcuni presenti, specie uomini accampati in fondo alla chiesa o rifugiati nel coro dietro l’altare. Spesso la comunione con pochi partecipanti, specialmente alle Messe “grandi” a causa del digiuno dalla mezzanotte, per non perdere tempo, invece che al momento vero e giusto nella celebrazione, era distribuita prima all’inizio o dopo alla fine della Messa stessa. Quando ci preparammo insieme, parroco e fedeli, per celebrare la liturgia rinnovata, da parte di quella gente buona e semplice, non vi fu alcuna opposizione o difficoltà, anzi molti espressero soddisfazione, contenti di poter capire meglio ciò che si viveva tutti insieme celebrando la propria fede. Ed in poco tempo si potè facilmente e felicemente operare con serenità il passaggio. Per questo a noi veterani questa ricorrenza del 50° non può che risuonare come un’eco bella e positiva dell’entusiasmo vissuto allora e non riusciamo a comprendere come siano possibili, grazie a Dio rari nelle nostre Chiese locali piemontesi, certi rigurgiti o nostalgie di esperienze passate proprio da parte di coloro che questo passato non l’hanno vissuto.

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