Gli anni ‘80 sono stati, per chi li ha vissuti, un decennio incredibile. Al di là della moda della nostalgia che tanti affari sta facendo fare a chi sa vendere gadget ed emozioni di seconda mano, è indubbio che quel decennio abbia rappresentato una svolta vertiginosa nella cultura popolare, nella musica, nei film, nei cartoni animati e soprattutto nel rapporto che la tecnologia e la fantascienza hanno avuto con la nostra vita di tutti i giorni. Il progresso tecnologico, i primi anime giapponesi, i computer e le console di gioco casalinghe hanno plasmato l’immaginario collettivo di una generazione che di colpo si vedeva protagonista di film in cui coetanei, ragazzi proprio come noi, venivano chiamati a salvare il mondo o a compiere grandi imprese semplicemente perché sapevano fare cose considerate ‘da sfigati’.
Come giocare ai videogiochi per esempio.
Rispetto alle meraviglie grafiche attuali ci viene da sorridere nel vedere la penuria di pixel e i pochi colori dei videogiochi dell’epoca, ma tanto bastava per immaginarsi mondi incredibili (non dimentichiamo il ruolo che avevano in questo senso le meravigliosa illustrazioni delle scatole di questi giochi, una forma d’arte a parte che si sarebbe purtroppo persa nel tempo), sentirsi protagonisti di un momento magico in cui la fantascienza diventava pop e chissà, magari sperare che un giorno o l’altro i nostri riflessi ci avrebbero permesso di essere chiamati a difendere la galassia, come succede al protagonista di Giochi Stellari (The Last Starfighter), a sopravvivere in caso fossimo finiti prigionieri nel mondo di Tron, o anche solo a vincere gli Armageddon Games, come ne Il piccolo grande mago dei videogames (The Wizard) (anche se il mio preferito è sempre stato Wargames, che ci ha insegnato come l’unica maniera per vincere una guerra termonucleare sia non giocarla).
Questo terremoto tecnologico, partito da oltreoceano, in Italia si è scontrato e ha posto radici in quelli che erano i luoghi di aggregazione per eccellenza dell’epoca: i bar.
Non che non esistessero sale giochi dalle nostre parti (e ogni Luna Park che si rispetti ha sempre avuto la sezione arcade), ma in un qualunque pomeriggio di metà ottobre era al bar che dovevi andare per giocare ad un coin-op. Forti di hardware (e di un prezzo) decisamente superiore a quello di una macchina casalinga, i cabinati nei bar potevano vantare una grafica di gran lunga superiore a quella di una qualunque console presente sul catalogo GiG. Chiunque avesse in casa un Commodore 64, o un’Amiga o uno ZX Spectrum ammirava quelle meraviglie nei bar come qualcosa di irraggiungibile, e così sarebbe stato fino all’avvento della Playstation a metà anni ’90. In quei pomeriggi verso la fine del Secolo Breve, a fianco degli ultimi jukebox, si mischiavano le vecchie e le nuove generazioni per riempire di gettoni da 200 lire queste macchine delle meraviglie o, per chi come me era piccolo e non aveva soldi da spendere, per guardare ammirati i ragazzi più grandi che cercavano di battere un qualche record.
Ripensando a quei giorni non è tanto la nostalgia del tempo passato quella che mi attanaglia, né la malinconia nell’aver vissuto sulla nostra pelle la morte dei coin-op, quanto la tristezza e la disperazione che hanno accompagnato la successiva ascesa delle slot machines. Quello che era un angolo di aggregazione sociale è divenuto un angolo di solitudine e (troppo spesso) dipendenza. E la beffa finale: l’aver utilizzato lo stesso termine ‘videogioco/sala giochi’ per qualcosa che di gioco non ha nulla, se non nella triste accezione d’azzardo.
Ho pensato quindi di proporre, in occasione della messa al bando delle slot machines, un safari urbano tra quei bar di Mondovì che, a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, ho frequentato per colpa dei videogiochi che ospitavano, sperando che magari qualche gestore attuale possa approfittare dello spazio vuoto lasciato da una slot e rispolverare un vecchio cabinato, con una pila di patatine Dixi e Fonzies al suo fianco.
So che non sarà una lista esaustiva, e anzi spero che possiate contribuire ad ampliarla o correggerla. Ma è la mia memoria di bambino quella che sta percorrendo a piedi il tragitto: vagate con lei!
Pronti? Via!
Bar Grandangolo
Il bar per eccellenza della mia fanciullezza, visto che era quello dove mi portavano i genitori al pomeriggio, quando non c’era altro da fare all’Altipiano che andare avanti e indietro dal parco Europa alla stazione a vedere il rapido per Fossano. C’era il jukebox con Gianna Nannini ed Eros Ramazzotti, il cappuccino più anni ‘80 della storia (e questo ancora c’é, grazie a dio) ma soprattutto due cabinati che hanno ospitato alcuni dei giochi simbolo di quel periodo:
Snow Bros
Forse l’unico gioco dove riuscissi ad andare avanti per almeno 10 minuti con un solo gettone. Mi ricordo ancora tutti gli schemi a memoria. Da giocare mangiando le patatine San Carlo. Che io credevo venissero prodotte dal bar Grandangolo, che aveva l’insegna fuori, e poi ridistribuite in tutto Mondovì, cioè in tutto il mondo.
Tecmo Euro League
Ricordo “Winners don’t use drugs”. Ricordo che RM per me era la Roma, e non capivo perché avesse la maglia bianca. Ricordo che volevo ci fosse la Juve e invece c’era l’Inter. Ricordo che si poteva segnare SEMPRE facendo cross dal fondo, che il portiere saltava a vuoto. Ricordo che una volta un ragazzo più grande era in semifinale e ha perso. C’era il countdown e lui stava imprecando. Io pensavo che non sapesse che, visto che aveva ancora crediti, bastasse premere un tasto per ritentare. Ricordo che mi ha urlato qualunque cosa quando ho schiacciato quel tasto. Lui voleva ricominciare da capo con un’altra squadra. Ricordo che da allora ho imparato che forse a volte anche se pensi di agire e fin di bene, devi farti i fatti tuoi.
Impossibile sentirsi più vicini a Conan il Barbaro di così. Credo di aver giocato a questo gioco su qualunque piattaforma, nella mia vita. E una volta, giocando in doppio con mia sorella, l’ho quasi finito. E quando con l’amazzone avevi la magia al massimo e arrivava il drago? Il miglior gioco da giocare in coppia al bar, in assoluto.
Non so se il Bar della Piscina comunale (allora non ancora piscina all'apert... ah no) avesse un nome, ma a parte il già citato Tecmo Euro League, il fatto che avesse Toki lo rendeva l’unico motivo per cui sopportavo due ore di piscina. Io volevo giocare a calcio, il nuoto era lo sport più noioso del mondo.
Io credevo che fosse impossibile finirlo. Un gioco che ho sempre trovato difficilissimo. Però quando arrivavo alla fine del primo livello con lo sparo multiplo e il casco da football mi sentivo Dio. Da giocare mangiando le Dixi.
Altro bel gioco da giocare in due, ma credo che guardare questo video sia l’unica maniera per vederne la fine. A sentire la musichina sento ancora l’odore dei posaceneri a fianco dei tasti.
Credo che tutti i bar abbiano avuto almeno una volta questo videogioco. Di sicuro era anche al Bar Grandangolo, ma è al bar della piscina che ci ho giocato maggiormente. In pratica un ragazzo in calzoni e cappello da Livingston giapponese spara arpioni a dei palloni rimbalzanti i quali, un volta colpiti, si dividono in due palloni un po' più piccoli.
Io non ho mai saputo come si chiamasse davvero questo bar, e purtroppo da bambino non riuscivo ad andarci spesso. Mi capitava sempre però di avere il buono per il gelato (1000 lire una volta all’anno, all’asilo e alle elementari), e aveva due videogiochi:
Non so se sia mai riuscito a superare il primo livello, quello della caduta con il paracadute, ma tanto io venivo in questo bar per giocare all’altro gioco. Che peró era sempre occupato.
Solo chi ha avuto il privilegio di avere The Ultimate Warrior e Andre The Giant come eroi dell’infanzia può comprendere appieno la grandezza di questo videogioco. Non ho mai capito come si facessero le mosse, ma tanto bastava premere tutti i tasti e prima o poi sarebbe successo qualcosa di fantastico. Non ho mai vinto un incontro ma poco importava.
A Piazza, dove il rapporto tra bar e abitanti è il maggiore d'Europa (un bar ogni 0.72 abitanti), l'unico ad avere avuto dei videogiochi era quello sotto al vecchio Palazzo di Città (quello che più tardi venne chiamato "Caffè Agorà").
Archetipo dei picchiaduro di strada, quello con la ragazza rapita dal cattivo di turno e la coppia di amici o fratelli che deve farsi strada in una megalopoli post guerra nucleare a suon di cazzotti tra gruppi di punk e ninja per salvarla. Double Dragon rappresenta forse il titolo più famoso, grazie anche alle sue infinite trasposizioni sulle console casalinghe.
Graficamente, come giocabilità e come dose di umorismo forse il più bel sparatutto/platform mai creato. Ne esistono diverse versioni successive, ma l'impianto grafico resterà molto simile a questa prima versione del 1996. A testimonianza che ancora verso la seconda metà degli anni '90 si potevano trovare coin-op di tutto rispetto.
Qui mi ci portava mio nonno, e per me tutti gli avventori erano pescatori d'acqua dolce come lui. Aveva giochi più strani, e mille anni più tardi ricordo di aver assaggiato qui il mio primo Southern Comfort. Sul gelato alla crema. Con le patatine. Non fate quella faccia, ve lo consiglio.
C’era il biliardo e c’erano le donnine nude. Ma solo se giocavi bene (e se mio nonno non guardava).
C’erano i ragni e le donnine vestite. Ma si spogliavano se finivi lo schema (e se mio nonno non guardava).
Credo sia stato l’ultimo baluardo dei bar con cabinati, avendo ospitato Virtua Striker 2 (o forse era il 4? La mia memoria funziona meglio sulla lunga distanza) fino a metà degli anni 2000.
Non ci andavo da bambino ma ci sono andato spesso dopo, continuando ad ammirare quel coin-op che da solo come uno scoglio lottava nel mare in tempesta.
Il bar della stazione era la tappa finale del lungo, lunghissimo pellegrinaggio a piedi dal parco Europa ai binari del treno. A me all'epoca sembrava un percorso lunghissimo, ma per fortuna ad aspettarmi, oltre al treno merci che passava fortissimo senza fermarsi, c'erano anche alcuni coin-op davvero notevoli.
Il gioco di guida per eccellenza di quel periodo, una Ferrari Testarossa decappottabile, camicia arrogante lui, capelli biondi al vento lei, a infrangere ogni limite di velocità tra le palme della California (o era la Florida?). Si poteva scegliere tra cambio automatico o manuale, ma io ancora non sapevo guidare quindi sceglievo l'automatico. Il manuale aveva avanti e indietro, come la Panda.
Ok non era un bar, ma era a Piazza e almeno si aveva qualcosa da fare mentre si aspettavano le pizze. Questo gioco del rally però era troppo difficile e aveva un vero volante, cosa che rendeva davvero tutto molto più ostico visto che la visuale era isometrica...
Lo so, non è un bar, e non è neppure a Mondovì. Ma era impossibile non essere attratti dai due cabinati all’ingresso.
La versione senza donnine nude di Pocket Gal (o viceversa?), la cosa brutta era che ero abbastanza bravo e più di una volta ho dovuto lasciare la partita in corso perché le pizze erano pronte e toccava tornare a casa.
Odiavo e amavo questo gioco, per me la cosa più giapponese possibile. Dai vestiti al martellone, e soprattutto gli avventori che nel primo livello pasteggiavano a ramen in un chioschetto. Bellissimo e anche abbastanza difficile.
Questo breve tour finisce qua, per ora. Non riesco a focalizzare altri coin-op ma sono sicuro di essermi dimenticato qualcosa, e di aver tralasciato qualche bar semplicemente perché per abitudine non ero solito frequentarlo. In tal caso, siete caldamente invitati a intervenire e a condividere i vostri ricordi! In attesa di sapere di quali nostalgie soffrirà la nuova generazione possiamo crogiolarci tutti insieme all'ombra dei nostri amati, fantastici, irripetibili videogiochi degli anni '80.