H è muta, in italiano – lo impari già alle primarie. E quando devi fare lo spelling di una parola, non sai mai quale termine usare per spiegare che c’è un’acca. Alla fine, grazie a Dio ci sono gli hotel. E così acca è sempre H come hotel.
Ma per te che vivi in sbadanza, acca è H come handicap. Potrebbe essere anche H come ospedale, ma non siamo mica in Scozia, qui: la H di ospedale passa attraverso troppe mediazioni, devi pensare alla segnaletica stradale in cui i cartelli con l’H che indicano la presenza di un nosocomio, devi affaticare troppo il cervello e la memoria. E se sei impegnato con la sbadanza, non ce la fai. Sei troppo stanco.
Dunque, H sta per handicap. Che poi, handicap cosa vuol dire? «In medicina e in psicologia, ritardo di maggiore o minore gravità o limitazione permanente o transitoria nello sviluppo o nell’uso di una determinata funzione fisica o psichica». Così, con un sovraccarico di congiunzioni disgiuntive, definisce handicap uno dei più diffusi vocabolari della lingua italiana, il Devoto-Oli. La parola, che circa trent’anni fa sembrava all’avanguardia, ora comincia a essere sentita come offensiva e si preferisce sostituirla con disabilità. Anzi, il portatore di handicap lungi dall’essere un handicappato tende a essere definito come diversamente abile. La diversabilità – se il termine esiste – è politicamente più corretta dell’handicap.
Questioni di termini – ma forse anche di sostanza, non ne so abbastanza per esprimermi in materia. Io con l’handicap ci vivo ma non in prima persona, lo assisto solo, e ormai ne ho la deformazione tipica – guardo ovunque se i marciapiedi sono percorribili da una carrozzina, se ci sono barriere architettoniche ecc. Ma non riesco a rendermi conto se per l’handicappata con cui ho ha che fare io sarebbe meglio essere definita diversamente abile: da quel che ho capito, lei preferisce il vecchio termine handicap. Ci ha messo tanto ad abituarcisi, quand’era giovane...
Infatti è un termine straniero. Inglese. Hand in cap: la mano nel cappello. Nel Cinquecento era un gioco d’azzardo che consisteva nel porre una mano dentro un cappello in cui erano state poste alcune monete. Nel 1754 il termine è però stabilmente migrato in un altro campo semantico: quello dell’ippica, dove comincia a indicare lo svantaggio di partenza assegnato al cavallo considerato vincente, oppure il vantaggio arbitrariamente assegnato al cavallo sfavorito. Dall’ippica il termine si estende agli altri sport (nel 1887 ne fa menzione il Resto del Carlino) e finalmente nel 1915 se ne trova la prima attestazione (sempre in inglese) per indicare il bambino che parte a scuola con uno svantaggio rispetto agli altri studenti. Nell’epoca fascista si tenta di espungerlo dal lessico italiano, ma poi si pensa che sia meglio limitarsi a decapitarlo cancellandogli l’acca così impudentemente anglosassone: andicap, andicappato. L’acca però ritorna prepotente a imporsi nell’Italia liberata, aperta al mondo e alle sue parole: ed è per questo che per noi di sbadanza H è, inguaribilmente, H come handicap.