Gregory Porter a Monfortinjazz. Una voce “di whisky e di miele”

Per la quarta serata di Monfortinjazz il palcoscenico è di Gregory Porter, la voce jazz rivelazione degli ultimi anni. 

Una formazione vintage, perfettamente equilibrata tra sound elettrico ed acustico, è la base perfetta per una voce eccezionale come quella di Gregory Porter. Cristallina, eppure venata al punto giusto di sfumature black, una voce che sa piegarsi perfettamente ad esprimere la melanconia e la sofferenza del blues, le introspezioni sentimentali dell'anima e la sensualità dei ritmi più scatenati. Una voce di “whisky e miele”, l'ha definita Stefan Kyriazis, critico musicale del Daily Express. Porter è considerato una delle più belle voci jazz in circolazione, si muove in un mondo musicale tutto suo, un crocevia tra la contemporaneità e la musica degli anni 50. Non è il figlio di nessun X-factor o altre vetrinette televisive. Vent'anni di duro lavoro pesano sulle sue robuste spalle,  una carriera costruita a colpi di concerti, sulla scia dell'ultimo consiglio che gli aveva dato sua madre prima di morire, dicono, a lui che cantava per hobby ed aveva, per la sua vita, tutt'altro progetto, di più basso profilo.. “Canta, è quello che sai fare, non dimenticarlo”. Non l'ha dimenticato. Così come non dimentica mai il suo inseparabile cappello, calato su una specie di cappuccio che gli copre quasi interamente il viso. Difficile da fotografare, quando canta, con quel volto sempre immerso in una semioscurità. Iniziò a indossarlo per coprire le cicatrici di un intervento chirurgico ed ora è diventato un po' il suo marchio. Senza sarebbe irriconoscibile. 

Quando vedi apparire quel ragazzone nero, con un cappello in testa e il volto semisepolto nella stoffa, sai cosa aspettarti. Da quando ha pubblicato il primo album, Porter è una presenza fissa ai Grammy Awards. Ne ha vinti due con “Liquid Spirit” nel 2013 e con “Take me to the Alley” l'ultimo lavoro, del 2016, per il miglior album vocale jazz. Ora ha quattro incisioni all'attivo e un disco dal vivo. L'anno scorso, quando avrebbe dovuto tenere il suo primo concerto a Monfortinjazz. Il cielo decise diversamente, lasciando una scia di polemiche che amareggiarono parecchio gli organizzatori, e infatti lo hanno ricordato, domenica sera, poco prima che il cantante tornasse sullo stesso palco. L'aveva promesso, che sarebbe tornato per recuperare l'occasione perduta, ed è stato di parola, anche se in modo un po' rocambolesco. Avrebbe dovuto essere a Monforte in mattinata, ma il gruppo ha perso il volo ed è potuto arrivare solo in serata. Dopo una breve presentazione ad opera di Federico Sacchi, Porter è salito sul palco insieme al quintetto di musicisti che lo accompagna: Tivon Pennicott al sassofono, Chip Crawford al pianoforte, Ondrej Picev all'organo Hammond, Jahmal Nichols al contrabbasso e basso elettrico e Emanuel Harrold alla batteria.

La scaletta include brani tratti da tutti i suoi album: dal suo ultimo lavoro, ad esempio, viene il brano con cui apre la serata, Holding On, la title track e Don't be a fool, che esegue accompagnato dal solo pianoforte. Dal resto del repertorio la ritmata Liquid spirit, Be Good, 1960 what? Spesso duetta con il pubblico, in serrati call and response. Protagonista della serata è Porter, ma i musicisti hanno lo spazio per qualche momento solista, tra cui il torrenziale e vertiginoso solo di basso elettrico e di batteria sul finale. Emanuel Harrold non cede alla tentazione di sfoggiare virtuosismo circense, ma esegue un assolo ricco di gusto, esibendosi in una serie di poliritmi che mettono a durissima prova l'indipendenza degli arti.

La critica più frequente che si muove a Porter, leggendo le varie recensioni in rete, è di essere un artista piuttosto statico. Scrive da sé le sue canzoni e riesce a sfornare dei gioiellini ricchi di classe, tuttavia il suo stile è sempre ostinatamente ancorato al jazz degli anni '50, al sound di Nat King Cole, il modello più caro per lui, che ha una vera e propria ossessione per il crooner statunitense. Non si avventura mai in sound più moderni o sperimentazioni. Gioca sempre in casa, dove esprime al meglio il suo talento. È un discorso che ha una sua logica.  Gregory è sicuramente uno di quegli artisti hanno un loro mondo, ben definito, in cui si muovono e si esprimono al meglio. Altri sono spiriti irrequieti, sperimentatori, perennemente alla ricerca di un rinnovamento o di un sound innovativo. Gregory Porter è uno di quelli che ha scelto di giocare sempre in casa, e vince sempre. Perchè sul suo terreno è oggettivamente imbattibile, lì sta la sua unicità. Ognuno può avere le sue preferenze su quale sia l'atteggiamento preferibile, certo la prima impostazione è molto più familiare agli artisti pop. Porter ha anche questa freccia al suo arco: è un artista jazz di altissimo livello ed ha il pregio di essere appetibile anche a un pubblico più generalista. Potrebbe diventare un artista di fama mondiale, gettando un ponte di estrema qualità tra il jazz e la musica popolare. Sicuramente è una delle voci soul più belle che si siano mai ascoltate negli ultimi anni.

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