Noah Pax e la sua ora di Libertà – recensione di un amico

Liberty, il primo album di Noah Pax (aka Pietro Caramelli) è un misto di elettronica, folk e cantautorato. La sua idea di Libertà

A Luigi Pirandello la famiglia stava parecchio stretta. In uno dei tanti scritti, lo scrittore siciliano la definiva una “gabbia” dove le sue ali creative erano destinate inevitabilmente a tarparsi. Noah Pax – che per motivi di affetto chiamerò Pietro – si pone all’opposto, in quanto sceglie di dedicare il primo album da solista alla sua famiglia e di intitolarlo Liberty.

Liberty è una parola strana, difficile da rendere in italiano con un solo termine. Senza troppo approfondire, fra i banchi di scuola spesso apprendiamo che “libertà” si dice freedom in inglese. Qualche appassionato di storia dell’arte sa pure che lo stile liberty caratterizza la bellezza di alcuni palazzi italiani dei primi del Novecento.

Liberty” da solo, invece, ha natura politica. La sua pronuncia è quasi un’eco al pensiero francese, giacobino (libertéégalitéfraternité). Non a caso la Statua della Libertà, che la Francia ha donato agli Stati Uniti nell’Ottocento, è detta Statue of Liberty dagli anglosassoni, e non Statue of Freedom, come si potrebbe pensare. Pure Pietro fa la sua scelta politica, evidente dal momento in cui ha detto sui social di voler pubblicare le canzoni nel giorno dell’Anniversario della Liberazione.

Ci sono quindi molte idee di libertà. C’è quella rivoluzionaria, che ha impresso la volontà di dare una svolta alla storia nei partigiani della Resistenza italiana. C’è poi quella libertaria e irrefrenabile, che ha ispirato le menti di chi ha lottato per i diritti civili nei regimi autoritari e nelle democrazie.

Nel suo primo lavoro, Pietro sposa l’idea di una libertà politica che riguarda anzitutto la sua intimità ("‘Cause we were political | Prisoners in our house"). L’album è una sfida con se stessi, con le proprie incertezze. Pietro fa i conti con convinzioni passate, adolescenziali, e non solo vuole lasciarsele alle spalle, ma elaborarle e “passarci attraverso”. Ogni canzone testimonia questa risolutezza, senza esigere peraltro il consenso di tutti.

Exile, la prima traccia, è la mia preferita. Gli accordi di piano e le note alla chitarra sorreggono una melodia vocale che inizialmente ha toni dolci e alla fine si fa declamatoria, un po’ come la (o il?) coda di Hey Jude dei Beatles e The Day The World Went Away dei Nine Inch Nails. Gli ultimi versi (“We are anything but needy | We need to free ourselves from liberty”) contengono il messaggio dell’album ridotto all’osso: bisogno dell’altro, volontà di fuga da una libertà inventata.

Nick Drake e Mount Eerie avrebbero potuto scrivere a quattro mani Visage, una canzone che parla dell’amore di una coppia matura, di quell’amore disperato che “strappa i capelli” (cit.). L’atmosfera iniziale è quasi smielata. Poi entra la batteria di Pillo (Paolo Bertazzoli) e tutto si definisce meglio. Sensi di colpa e debolezze si alternano (“Depravations made us kind | We don’t need to exorcise, but | They won’t let, | They won’t let us out of here”), finché non compare sulla scena il figlio degli innamorati. Il finale, opera degli W/him (Lorenzo Donato e Andrea Trona), conferisce un tocco di freschezza elettronica al pezzo.

C'è poi (Something), un crescendo strumentale costruito su un riff di chitarra. Avete presente Jon Hopkins e Four Tet? Siamo lì.

È di nuovo il turno Nick Drake, ma stavolta da solo. (Fading), che in una versione precedente si chiamava Four Years, è una breve ballata alla chitarra che dura a malapena un minuto e venti, e funge da vera coda del precedente Visage.

Ballad for the kind man, costruita su strumming acustico e pad elettronici, è avvolta dal mistero. Chi è il kind manche Pietro cita nel titolo? Io lo conosco, ma di certo non vi svelerò la sua identità. La brevità del testo certamente non aiuta.

Comeback (Happy ending means goodbye) chiude l’album “ad anello”. Pietro intende tornare al punto di partenza, o forse addirittura rinunciare all’esilio. Curiosamente, i primi versi ricordano la storia di Socrate, che ha scelto di morire bevendo il veleno anziché andare in esilio (“The first sip always puts you off | You’ll be so sick, it feels like drowning into a bog”). L’immagine della casa di famiglia, simile a una prigione, prende il posto di quella di una spiaggia da cui si assiste, liberi, allo spettacolo delle maree.

Liberty è un lavoro complesso e raffinato. È un’ora di Libertà, passata accanto a compagni di viaggio, una ragazza, un cane indifeso o un padre che ci ha guardato crescere. All’appello manca il secondino, che dal cortile di una prigione ancora osserva De Andrè meditare fra le sbarre.

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