«É la festa di tutti i Santi: gli “amici di Dio”, – questa la bella definizione patristica del santo –; “una moltitudine immensa che nessuno può contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua”; una moltitudine, ma non l’indistinto. Al contrario: segnati uno a uno sulla fronte con il sigillo di Dio. Come a dire che il volto, il volto di ognuno dice un gesto di Dio, un’individuazione, un’appartenenza – ha detto il vescovo Egidio nell’omelia alla messa, martedì 1° novembre, solennità di Ognissanti, al cimitero di Mondovì –. Il Dio della Bibbia, il nostro Dio, si manifesta sempre come un Dio di qualcuno: è il Dio di Abramo, di Mosè, di Maria, di Pietro e Paolo, di Francesco d’Assisi, di Madre Teresa di Calcutta… il Dio di nostro padre e di nostra madre.
E tutti dicono a gran voce: “la salvezza appartiene al nostro Dio”. Ognuno lo riconosce e ognuno per la sua storia, dice: “Dio si è chinato su di me; ed io ho posto la mia fiducia in lui. Lui è stato la mia salvezza”».
Morte esibita, morte nascosta
Fino a qualche anno fa, in questa giornata i cimiteri si riempivano: di persone, di fiori, di lumi, di preghiere. Era la festa malinconica e insieme tenera dei morti, per i nostri morti.
Gente di tutte le età accorreva, in processione, o individualmente o come famiglia. Genitori e figli in visita dai nonni, fratelli dai fratelli, purtroppo anche genitori dai figli, il caso più straziante.
Forse, nell’essere tanti e nella varietà dei casi e dei dolori si trovava conforto reciprocamente.
Invece, nei giorni scorsi, durante la preghiera al cimitero nel corso della visita pastorale, un signore mi esplicitava ciò che già molti di noi intuivano: non è più così.
Le nuove generazioni non vanno al cimitero. Anche il culto dei morti segnala un punto di frattura, l’interrompersi di una tradizione che forse segna un cambio di civiltà.
La morte è spettacolarizzata nei videogiochi, al cinema e in tv; è esibita dalle guerre nei telegiornali; ma, quando si tratterebbe di farci i conti personalmente, nella propria vita e nel proprio cuore, nelle proprie famiglie e nei propri affetti, agli occhi dei giovani sembra scomparire, dissolversi. Spesso, anche perché gli adulti vogliono tenerli al riparo dalla verità, e al cimitero non li portano, al ricordo dei defunti non li educano. Un vero peccato di omissione, che a ben pensarci, a suo tempo si ritorcerà contro di noi, perché priverà anche noi del loro ricordo e della loro preghiera.
Il cimitero: silenzio e richiamo
Eppure, quanto è ricco di significato e istruttivo, questo luogo!
Sul piano umano, esso ci ricorda la caducità della vita e la democraticità del suo esito: qui ogni forma di superbia e di arroganza si vanifica, al massimo ostentando come ultimo suo vanto l’inutile sfarzo della sepoltura. Un monumento, qualche titolo, la cappella più o meno imponente. Poca cosa.
Sul piano spirituale, invece, il cimitero è luogo di pace: qui il rumore della vita e le sue inquietudini si placano, mostrano tutta la loro vuotezza; qui si pensa all’eternità, alla vita oltre la morte, alla risurrezione; qui si vive la “comunione dei santi”. Qui, in questa terra di mezzo fra il nostro mondo e quello che verrà, meglio comprendiamo ciò che scrive san Giovanni nel passo di Vangelo che abbiamo ascoltato: “Ciò che saremo non è ancora stato rivelato”. Perciò, qui più che altrove è bello e ha senso pregare: per noi stessi e per i nostri cari che ci hanno preceduto nel mistero della morte. Perché affidiamo noi stessi e loro alla misericordia di Dio, nell’attesa di comprendere che cosa li ha accolti e ci attende. Ciò che loro già sono, anche noi saremo, corporalmente e spiritualmente. Saremo cenere e polvere, come loro; saremo parte con loro – almeno vogliamo sperarlo e desiderarlo – di quella immensa schiera di eletti che vivono in Dio, e di cui ci ha parlato il libro dell’Apocalisse.
Pregare per i propri cari, pregare per tutti
Proprio in riferimento alla preghiera che viene spontanea al cimitero, vorrei infine suggerire due attenzioni: come accennato, è giusto, bello e doveroso che ricordiamo le persone care, i parenti, gli amici e i benefattori. Coloro che portiamo nel cuore e cui dobbiamo gratitudine. Loro sono la nostra storia; noi siamo il frutto del loro amore e della loro vita di amore e di fede.
Ma la carità cristiana deve spingerci oltre: a ricordare le tante persone dimenticate, anonime in vita e in morte. Quelle che, direbbe Foscolo, non hanno lasciato eredità d’affetti, o non hanno trovato chi la raccogliesse.
Anche a loro deve andare il nostro pensiero, nella certezza che Dio le ha care e avrà cara la nostra preghiera che gliele affida. L’attualità, peraltro, ci deve – ci deve! – far pensare e pregare per le migliaia di vittime di tutte le guerre, i bambini e i giovani, per lo più, rapiti nel bel mezzo della loro unica esistenza, e solo perché l’uomo è ancora così incredibilmente stupido da voler ricomporre le rivalità attraverso la violenza, come non sapesse, che, dopo il dispiego della forza e il sacrificio di città, case, sangue e vite innocenti, comunque si dovrà giungere a un accordo.
Possa il Signore perdonarci tanta insipienza e crudeltà, e accogliere nel suo abbraccio tutte vittime che la stoltezza umana ha lasciato e continua a lasciare dietro di sé.