Musica e introspezione

di GIACOMO BAGNA

Per molti di noi questo periodo di reclusione forzata (ma, mi preme sottolinearlo, assolutamente necessaria) corrisponde anche a un’inevitabile sensazione di solitudine. Quale occasione migliore tuttavia per coltivare passioni magari sopite che negli anni hanno dovuto lasciare il passo a una routine sempre più serrata e totalizzante? Io, da ascoltatore famelico, sto occupando buona parte del mio tempo a scandagliare i meandri di Spotify alla ricerca di album meno conosciuti, o perché no a riscoprire opere che ho amato e che negli ultimi mesi hanno assolto il mero compito di sottofondo ai miei studi. Qui di seguito cinque dischi, di cui quattro piuttosto celebri, che proprio nella solitudine hanno uno dei loro leit motive. Sono semplici consigli, senza le pretese di vere e proprie recensioni, pensati soprattutto per chi, come il sottoscritto, all’umore e alle circostanze cerca spesso di abbinare musica coerente. Buon ascolto.

NICK DRAKE - PINK MOON - 1972

Non è sufficiente la disarmante bellezza dei tre LP pubblicati prima della tragica fine a riassumere la straordinarietà di un artista come Nick Drake. Forse bisogna ricordarne il rivoluzionario fingerpicking con cui accompagnava l’esile voce, forse bisogna ricordare l’unico tour, terminato dopo una manciata di date perché l’introverso Drake non sopportava che gli avventori dei locali non gli prestassero la dovuta attenzione. Pink Moon è il canto del cigno, un disco spoglio dai raffinati arrangiamenti del precedente Bryter Layter. É un testamento, su cui si proietta ineluttabile l’ombra lunga della morte che da lì a poco avrebbe strappato alla sua arte un Nick Drake appena ventiseienne.

 

ELLIOTT SMITH - ROMAN CANDLE - 1994

Elliot Smith è uno degli artisti più iconici della seconda metà degli anni ’90. Un’anima dilaniata, che soprattutto in questo esordio solista lascia trasparire un’analogia di fondo con il già citato Nick Drake di Pink Moon, soprattutto per gli arrangiamenti scarni e la voce così fragile che sembra potersi spezzare da un momento all’altro. Ma se la poetica ugualmente malinconica di Drake si muoveva su un registro quasi ermetico, i testi di Smith sono più diretti, disincantati, e definiscono i contorni di una solitudine inevitabile e quasi anelata. Morirà a soli 34 anni, depresso e alcolizzato, in circostanze piuttosto dubbie, che ancora oggi mettono in discussione l’ipotesi del suicidio con cui il caso era stato archiviato.

NINE INCH NAILS - THE FRAGILE - 1999

Dovessi dilungarmi sulla figura di Trent Reznor questo trafiletto assumerebbe i toni decisamente inadeguati di un’agiografia. Mi limito a consigliare a chiunque non l’abbia ancora fatto di approfondire la conoscenza di questo eclettico compositore, che con The Fragile tocca forse l’apice del suo genio creativo. Il lunghissimo doppio LP (1:43) è un tuffo nel vuoto, il ritratto sporco e rabbioso di una disperazione insanabile. L’ossessione di Reznor, oltre i livelli di guardia nel biennio 97-99, risolve in un’opera totale, che segue percorsi ora allucinogeni ora terribilmente claustrofobici, ma non intravede mai lo spiraglio di luce in fondo al tunnel.

FINE BEFORE YOU CAME - COME FARE A NON TORNARE - 2013

Unica produzione italiana di questo breve elenco, e tecnicamente neanche un vero e proprio album ma un EP, che merita tuttavia assoluta considerazione nella discografia dei FBYC. Cinque tracce disperate, in cui il cantato di Jacopo Lietti, un lamento profondo e trascinato, è fisicamente risucchiato da strumentali in bilico tra emo e post-rock. È probabilmente l’opera più cruda e sincera della band milanese, nonostante rappresenti una svolta stilistica anche piuttosto decisa. Un manifesto alla sofferenza che si rifiuta di cercare vie d’uscita, come lasciano intuire i primissimi versi del disco: battiamo i lividi per mantenerli sempre viola / per ricordarci che fa ancora male.

SUFJAN STEVENS - CARRIE & LOVELL - 2015

Forse uno dei miei dischi preferiti in assoluto. Carrie è la mamma, schizofrenica, depressa e alcolizzata, che l’ha abbandonato ad appena un anno, Lowell il patrigno. Lui è ovviamente Sufjan Stevens, che con questo disco cerca quasi una riconciliazione postuma con la figura materna, vittima di un cancro allo stomaco nel 2012. È un album che necessita tempo per essere metabolizzato: l’autore si spoglia completamente, in una sorta di confessionale sospeso tra un dolore lancinante, per quanto ovattato dalla delicatezza della voce e degli intarsi di chitarra acustica che la avvolgono, e la nostalgia dell’unico breve periodo che suscita ricordi piacevoli della madre.

 

La Play List della Quarantena

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