Giornata della Memoria: il ricordo dei monregalesi martiri nei lager

Anna Segre ved. Levi; Pia Levi ved. Levi; Aldo Levi; Beniamina Levi; prof.sa Delfina Ortona: sono i nomi sulla stele all’ingresso del cimitero.

Cinque nomi di ebrei monregalesi martiri dei lager sono incisi sulla stele posta nell’aprile 1964 all’ingresso del cimitero di Mondovì “come ricordo imperituro di un nefando crimine e come richiamo per tutti noi agli universali ideali di fratellanza, giustizia e pace”. Questi i loro nomi: Anna Segre ved. Levi; Pia Levi ved. Levi; Aldo Levi; Beniamina Levi; prof.sa Delfina Ortona. “Trascinati al martirio – ricorda la scritta – con sei milioni di ebrei vittime innocenti in Europa di un bestiale odio di razza, fra cui ottomila ebrei d’ Italia”. “Non aride cifre, queste – aggiunge la scritta – ma la dolorosa testimonianza dell’offesa recata alla civiltà e alla legge di Dio”.

La persecuzione in città
Se a metà ‘800 la comunità ebraica era arrivata a contare duecento membri nel Monregalese, sul finire degli anni Trenta del secolo scorso essa era ridotta a poche unità, con la famiglia Levi in posizione eminente in città nel settore bancario e nell’industria ceramica. Anche i Momigliano, noti intellettuali, avevano radici da queste parti; poi si erano aggiunti i Bassani impegnati nella fonderia di via Cuneo. Le leggi razziali li colpirono tutti di sorpresa. Nell’Italia del 1938 gli ebrei erano in tutto 47 mila: una minoranza influente ben al di là della consistenza numerica. Liberati dai ghetti nel 1848, essi non erano ancor del tutto liberati dall’accusa di “deicidio” e da diffidenze derivanti proprio dalla loro coesione di popolo della diaspora. Soprattutto destava invidia e ingordigia la diffusa convinzione che la finanza occidentale fosse in buona parte nelle loro mani. Si fece così strada in Germania, come anche in Italia, la tesi di una congiura mondiale ebraica; e giornali come “La difesa della razza” presero a predicare un razzismo intransigente millantando basi scientifiche.

Nel marzo 1934 una retata in Piemonte di oppositori clandestini al Regime, tra cui gli ebrei Carlo Levi e Leone Ginburg, parve fornire argomenti all’antisemitismo, anche se i più degli ebrei non si tiravano indietro nel dare oro alla Patria e nel mandare i loro giovani a combattere in Africa e in Spagna. Ma proprio durante e dopo la campagna d’Etiopia si rese più evidente l’accostamento dell’Italia alla Germania e all’antisemitismo. Agli ebrei italiani impegnati in incarichi pubblici venne per prima cosa richiesta una professione di fedeltà, intanto si scatenarono aspre campagne di stampa per isolare le loro comunità e renderle odiose.

Leggi inique
Poi nell’estate ‘38 fu attuato su di loro un primo censimento che sollevò non poche confusioni per via dei numerosi matrimoni misti e delle assonanze onomastiche interpretate come indizi di appartenenza alla razza ebraica. Così, ad es., a Mondovì il dott. Ugo Bedarida fu lì per lì censito fra gli ebrei con moglie, figli e nipoti, essendo egli figlio dell’ing. Isacco; e così fu censita, coi quattro figli, la signora Angela Nepote per il fatto che sua madre faceva di cognome Bachi (e dire che la signora Rosa Angela era vedova dell’avv. Giovanni Jemina fondatore del fascio monregalese). E la signora Lina Levi Rolfi, residente a Piazza con la madre Elvira Cassin vedova di Davide Levi, che tralasciò di censirsi poiché dal 1922 professava la fede cattolica, venne però denunciata. Nell’autunno ‘38 Mussolini, sempre più legato ad Hitler, impose dure leggi razziali che vietavano, tra l’altro, nozze con elementi di razze non ariane e l’ingresso in Italia ad ebrei stranieri (o la loro espulsione dal Paese).

Esclusi da tutto
Gli ebrei vennero esclusi da posti negli Enti pubblici, nelle banche, nelle scuole ed università, oltre che dal servizio militare e dalla tessera del Partito Fascista. Erano previste solo talune discriminazioni per famiglie di ebrei caduti in guerra o per la causa fascista, per famiglie di volontari o decorati in guerra o di iscritti della prima ora al Fascio; ma per i “non discriminati” le misure erano pesanti e inique. Essi non potevano possedere più di 50 ettari di terra, né dirigere aziende con oltre cento dipendenti.

Fu questo il caso di Levi e di Bassani a Mondovì. Il dott. Marco Levi pose allora temporaneamente in liquidazione il Banco Cambio di via S. Agostino e cedette la presidenza della Ceramica Besio all’ing. Guido Musso. Poi, al rincrudirsi della persecuzione nel ‘43, dovette entrare nella clandestinità e cercare per sé, per la madre Tersilla Segre e per la zia Marietta vedova Foà rischiosi nascondigli e aiuti presso coraggiose famiglie e comunità. Pure Bassani dovette porre in liquidazione la sua Fonderia. E anche la signora Virginia Levi, vedova di Pietro Benso e madre del dott. Alfio, dovette lasciare il suo negozietto di tessuti in via S. Agostino.

Agli inizi del ‘39 risultavano a Mondovì 11 ebrei: 7 donne e 4 uomini. Si era aggiunta, oltre ai Bassani, Ernestina Franco, moglie dell’ing. Nicoli, dirigente della PCE. Quel settembre, poi, prese la residenza in città la prof.sa Delfina Ortona, del Ginnasio “Beccaria”. Benché avesse ottenuto la “discriminazione” a Torino, perse il posto a scuola e fu poi internata e vittima del lager. Aveva confidato fino all’ultimo sulle proprie simpatie per il fascismo.

La persecuzione ormai si faceva via via più stretta, causando sgomento, angherie e incertezze sull’avvenire, ma anche sollecitando cauti aiuti e simpatie. I giornali parlavano di esultanza popolare per quelle leggi, ma i rapporti di Polizia segnalavano un diffuso senso di disagio. Allora cominciò una campagna contro il “pietismo”. Ma i sospetti su ciò che stava toccando agli ebrei sotto il nazismo accrebbero l’allarme. Leggi intollerabili le aveva definite il papa Pio XI nell’enciclica “Mit brennender Sorge” prima di morire nel febbraio ‘39, quando stava per deflagrare una nuova terribile guerra mondiale. Poi nel 1943, con l’occupazione nazista del nord e centro Italia, si abbatté una più crudele persecuzione, con spietate deportazioni nei lager dello sterminio, dove da anni vite innocenti “passavano per il camino”.

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