Lo chiamavamo semplicemente “il coronavirus”. Del resto, chi mai si sarebbe dato pena di imparare nomi più complicati – come “Covid-19” o, ancora peggio, Sars-cov-2” – per qualcosa che si pensava durasse poco? È durata due anni. E non è ancora passata.
L’ARRIVO DEL VIRUS
Era il 22 febbraio 2020, un sabato. Nessuno se lo dimentica. Soprattutto in alcuni ambienti: quello sanitario in primis, come quello politico. Ma anche in quello giornalistico. Le agenzie batterono la notizia: «C’è un caso positivo di coronavirus in Piemonte». La Regione confermò. Il giorno dopo, domenica 23 febbraio, il governatore Cirio (in carica da otto mesi) firmò l’ordinanza. «Lo ricordo benissimo – ha detto, nell’ultima conferenza stampa –. In poche ore cambiò tutto. Istituimmo l’Unità di crisi per l’emergenza Covid». Il Piemonte intero cominciò a chiudere: le scuole, poi le palestre e gli allenamenti, poi cinema, teatri. Ogni aspetto della vita quotidiana, familiare e lavorativa venne investito dal virus. Due settimane dopo arrivò il vero lockdown.
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