La lettera di un genitore: «I ragazzi stanno crollando, ce ne rendiamo conto?»

RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
Alla fine scrivo. Scrivo solo, purtroppo, quando vedo che il limite è troppo vicino, forse al punto da avere già un piede sopra di esso. Mia figlia, che vive con piacere il clima in classe e che sta portando a casa risultati scolastici molto buoni, sta crollando. Potrebbe essere lei. Potrebbe essere una fase. Potrebbe passare. Potrebbe.

Non esistono termini di paragone per misurare lo stress che tutti stiamo subendo, è nuovo per tutti. Mi chiedo se non sia il caso di fermarsi e riflettere. Prima fermarsi, poi riflettere; quando sento uno strano rumore, crescente e mai udito prima, provenire dal cofano dell’auto, prima mi fermo, poi rifletto. I ragazzi sono rientrati in aula il 7 gennaio. Da allora, sotto l’input del “bisogna tenere duro fino alla fine del quadrimestre”, hanno trottato, anzi galoppato, al ritmo di 3, 4 e anche 5 verifiche alla settimana più eventuali interrogazioni. Come in tutte le classi, c’è chi ha preso tutto “a spanne”, c’è chi ha più a cuore il proprio successo personale e ha investito molto, aspettandosi come premio solo un pizzico di meritato e sospirato riposo (oltre ad adeguati risultati). Quindi, un ragazzino/a di 12 anni si è sobbarcato 3 settimane di fatica e stress in apnea, cullato da un sottinteso inespresso degli adulti “tanto non ci si può muovere, non si può fare sport, non si può andare a visitare nulla”. Questo è ciò che gli abbiamo propinato per settimane. Siamo sicuri che sia giusto?

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Guardiamo un altro esemplare tipico, ahimè, del panorama nazionale: 25 anni, lavora 10 ore al giorno in un luogo che non lo soddisfa, al venerdì prende fiato e per l’aperitivo (pre-Covid) è già fuori, prospettando una serata di svago. In sintesi, un week end ad alto tasso alcolico, per narcotizzare la frustrazione. Più o meno la stessa alternativa che hanno i nostri ragazzi quando, a una certa ora, mettono a sopire la fatica e l’ansia del giorno dopo, affogando e narcotizzando sé stessi nello schermo di un cellullare. Sborniabit, una sbronza da web, da youtube, da videogame, per dimenticare, per l’oblio narrato da tanti poeti preda dei fumi dell’alcol, ora invece infuso via wi-fi.

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Ma il problema non è più il cellulare in sé, ma il genere di vita che proponiamo ai nostri ragazzi, fatto di “fatica e duro lavoro” già alle Medie, prospettiva dalla quale la nostra generazione, e quelle precedenti, sono sempre volute evadere temporaneamente stonandosi ogni fine settimana con quelle che da queste parti chiamano “mine”. Li stiamo allenando a vivere la stessa vita di “lavoro e fatica” di m.... che noi per primi cerchiamo dall’eternità di diluire inutilmente nel vino, nel rum, nella vodka, a seconda di dove ci troviamo geograficamente.

Il cellulare non è il demonio: siamo noi, che proponiamo ai nostri ragazzi una prospettiva di vita d’inferno.
Un genitore

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