Siamo la musica che ascoltiamo?

Pensieri di fine estate, tra artisti, contesti e significati...

“Io sono la musica che ascolto”. Questo “claim” (usando il linguaggio attuale), utilizzato per lanciare il Reset di Torino (festival che approfondisce il tema della musica emergente italiana con live, workshop, show-case, e meeting di musicisti e che si terrà a Torino nel prossimo week-end), è tornato a più riprese nelle ultime settimane e in qualche modo fa da corollario a questa estate musicale. “Io sono la musica che ascolto” può sembrare un concetto snob, che apre a una serie di stereotipi; se però ci si aggiunge il pensiero che ciascuno di noi, sulla base degli ascolti che fa, può essere strumento di cultura musicale, allora il discorso (e la conseguente lettura) cambia molto e diventa lo spunto per chiedersi dove stia andando la musica e dove la vogliamo far arrivare.
Se un ToDays ci racconta come sempre più frequentemente nascano dei gramelot musicali, ricchi di spunti, citazioni e riferimenti sonori, ammiccamenti e accenni personali e originali, oggi si percepisce anche come la liquefazione dello strumento mediatico abbia favorito una perdita di qualità, più che nella musica che viene scritta, nell’ascolto che facciamo: musica fluida, mille brani da ascoltare in un continuum dove si perde il principio e la fine di un disco, dove capita che una band con meno di un anno di attività lavori alla creazione di un Ep, dove il più delle volte non si conosce la storia di una band perché non esiste più colui che la narri o perché già comunicata (inventata o no) tramite altri canali (instagram piuttosto che una pagina Facebook), dove non c’è tempo per ascoltare, perchè se non si arriva in tempo, il posto viene occupato da qualcun altro.
Occorre ripartire dagli ascolti, ce lo si ripete (tra addetti ai lavori) da tempo, ma occorrerebbe anche modificare i format, perché quelli che hanno storia mostrano crepe fin troppo evidenti e non sono più ripetibili perché il pubblico è cambiato. Eppure come si forma un ascolto, se non ci sono il tempo e l’occasione per farlo, se non ci sono gli spazi per esibirsi, se nell’idea stessa di aggregazione prevale il puro intrattenimento a momenti più “consapevoli”? Si aspetta che “l’istituzione” faccia la sua parte, e per quanto questa possa contribuire, a mancare sono idee nuove, dirompenti, capaci di unire, e mettere insieme le persone (tentativo dell’Aritmia Festival di Saluzzo la scorsa settimana, dove associazionismo nuovo e più datato lavorano assieme).
Ritrovandomi a percorrere questi territori da qualche anno, ho la sensazione che, per quanto il gusto della gente abbia la sua parte e sia cambiato, il vero modo per fare cultura non sia rappresentabile dall’artista che sale sul palco, bensì da ciò che si vuol comunicare e da come lo si faccia: il contesto, il significato, e come lo si trasmette allo spettatore. La provincia pullula di persone capaci, con tanta voglia di fare, mancano gli spazi, e soprattutto le occasioni per aggregare queste forze. Forse lo sforzo culturale che ora si dovrebbe fare, potrebbe proprio essere quello di lanciarsi al di là dei “confini di Stato” e pensare in grande a idee nuove.

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