30 anni di Sixties Graffiti: «Noi, che da ragazzi mangiavamo musica». L’intervista ad Attilio Ferrua

Chiunque segua la musica live, a Mondovì, conosce quel nome: Sixties Graffiti. E dire Sixties Graffiti è come dire Attilio Ferrua.

Chiunque segua la musica live, a Mondovì, conosce quel nome: Sixties Graffiti. La cover band più amata del Monregalese, che esiste da 30 anni e non molla il tiro. E dire Sixties Graffiti è come dire Attilio Ferrua: «Non so nemmeno come mai la gente attribuisce a me il ruolo di leader – dice lui –… questa band è nata da amici che amavano la musica. E sì, essere qua dopo 30 anni è un bel risultato».

La musica: quel mondo fatto di matti che non si conoscerebbero, se non fosse perché imbracciano uno strumento e toccano le stelle con le note. Dopo 30 anni, i Sixties esistono ancora e sanno ancora conquistare la città: il concerto del compleanno, venerdì 8 luglio, ha riempito piazza Maggiore come non si vedeva da tempo. Se c’è una persona, a Mondovì, che ha il diritto di dire la sua sulla scena, è proprio Attilio.

Attilio, venerdì sera i Sixties hanno fatto 30 anni… e tanto per cominciare, auguri. Adesso raccontaci: come ha fatto una band locale a durare così tanto? Qual è il vostro segreto?
«Eh sì, 30 anni sono davvero tanti. Quando siamo nati eravamo fra i primi a fare live di questo genere in città… pensa che “Talu” Costamagna ha cominciato a fare service audio con noi. Il segreto? Non lo so… forse dipende dal genere che abbiamo scelto, o forse da quello che riuscivamo a trasmettere. Io penso che la musica dal vivo sia qualcosa di speciale che non perderà mai valore. Non è solo una questione di tecnica strumentale».

La vostra band ha cambiato formazione molte volte, eppure siete riusciti ad andare avanti: qual è stato il legame che vi ha fatto resistere?
«Nell’84 eravamo io, Danilo Dalmasso, Bruno Avico, Franco Bruno e Tom Iannielli… siamo nati come band di amici, era quasi uno sfogo. Abbiamo cambiato molti membri, qualcuno non c’è più, qualcuno ha smesso. Direi che abbiamo avuto almeno tre formazioni completamente diverse. Il legame era ed è basato su una cosa semplice: i gusti musicali. Condividevamo quello, prima di ogni altra cosa. E abbiamo avuto la fortuna di trovare sempre le persone giuste».

Non ti è mai passato per la testa di dire “basta”?
«Confesso che qualche volta ci ho anche pensato. Siamo rimasti fermi per diverso tempo, gli anni ’90 sono stati quelli difficili: siamo passati dal fare 25 concerti a stagione a farne due o tre… c’erano meno occasioni, le Pro loco avevano meno soldi per ingaggiare i gruppi. Però abbiamo tenuto duro: la “vecchia guardia” non ha mai mollato… e il pubblico, quando siamo tornati live, ci ha dimostrato che era ancora legato a noi».

Apriamo all’amarcord: ti ricordi i primi pezzi che hanno provato i Sixties?
«È passato così tanto tempo! Mi ricordo che facevamo “The House of the Rising Sun”, i primi brani degli Stones e dei Beatles, “Fortuna” dei Procol Harum… e poi brani italiani. Uno dei primi fu “Luci a San Siro” di Vecchioni».

A proposito, sei venuto al concerto del “professore” a Mondovì per Collisioni?
«Confesso di no. Non sono un fan del calcio, quindi non mi interessava la partita degli Europei… ma il concerto è cominciato troppo tardi».

Una band che nasce oggi, riuscirà a durare 30 anni come voi?
«Penso che oggi sia tutto molto più difficile. Oggi l’attenzione per questo mondo è bassissima (Attilio usa un piemontesissimo “al pian di babi”, ndr!), le case discografiche non hanno nessun interesse a investire davvero, lo considerano un rischio da non correre. Prendono chi esce dai talent, lo sfruttano e lo abbandonano. I talent show per me sono una schifezza. La nostra generazione era quella che ha vissuto la musica in un modo diverso: noi la musica l’abbiamo mangiata. Per noi era cibo, per i ragazzi di oggi è consumo».

Hai detto una frase meravigliosa…
«È la verità. Noi eravamo quelli che compravano il 45 giri, lo mettevano sul piatto e lo facevamo girare a 33 per sentirlo rallentato e imparare l’assolo di chitarra, che poi dovevamo adattare alla tonalità originale. Un’altra cosa».

Avete fatto 30. State già pensando ai 35?
«Tanto per cominciare… speriamo di arrivarci! Sicuramente faremo qualcosa. Lo decideremo man mano, anno per anno. Se la gente continuerà a seguirci, noi ci saremo ancora».

INTERVISTA COMPLETA su L'Unione Monregalese del 13 luglio 2016

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