Leo Marconi, l’argentino del baseball innamorato di Mondovì

Ex giocatore in serie A e nella nazionale del suo paese, da due mesi è il manager e giocatore al Jfk Mondovì: «Qui in Italia ci sono i mezzi. Vogliamo rendere i ragazzi fieri di giocare per la loro città»

Leo Marconi, l’argentino del baseball innamorato di Mondovì
Dall'intervista su "Unione Monregalese" del 9 giugno

L’accento latinoamericano è inconfondibile, in un italiano comunque già rodato di chi è ormai abituato a fare la spola tra il nostro paese e l’Argentina. Il cognome poi tradisce inevitabili antenati del Bel Pese, dalle Marche per la precisione. Leonardo Marconi, 42 anni, da quasi due mesi è sbarcato ai “Passionisti”, nel quartier generale del Jfk Baseball Mondovì. E, grazie a lui, il nome della città è balzato su “Olè”, il quotidiano sportivo argentino più letto e diffuso (una sorta di “Gazzetta dello sport” di Buenos Aires) che, nel pezzo a firma di Sergio Stuart, dipinge Mondovì come una «città dai 1.300 anni di storia, equidistante con la Svizzera a nord, la Francia a ovest e Montecarlo a sud». Per Leo è stato subito un amore a prima vista: «Qui i ragazzi giocano per difendere i colori della comunità in cui vivono. È un grande orgoglio, io arrivo da un posto da 3 milioni di abitanti, c’è meno questa idea». Lo abbiamo incontrato “sul campo”, dove sorge il diamante di Mondovì e, da poco, anche una struttura al coperto con tanto di macchina “spara-palline” per non farsi fermare nemmeno da pioggia e neve.

Leonardo, partiamo dall’inizio della storia. Tu e il baseball come vi siete “conosciuti”?

Ho cominciato a cinque anni, a Buenos Aires. Da noi ci sono queste grande società sportive in cui si fa calcio, pallavolo, e tanti altri sport. Oltre alle tipiche e immancabili grigliate. Mia mamma raccontava spesso di quando mi fermavo a guardare gli allenamenti della squadra di baseball. Mi spronava a provare anche io, ma ero timido. Dicevo sempre di no. Alla fine però mi hanno portato “dentro” in quella che è stata la mia squadra per tantissimo tempo e a cui sono ancora legato, il Daom. Ho svolto tutta la trafila delle giovanili fino alla prima squadra in Serie A e in Nazionale (nel 2011 l’ultima apparizione). In Italia sono arrivato nel 2005 a Verona e poi Padova. In tutte e due i casi partivo dalla Serie B e poi siamo saliti in A…

Poi la prima volta in Piemonte, a Mondovì, nel doppio ruolo di manager e giocatore...

Sì, in campo ho sempre giocato come prima base. Adesso, con gli anni che passano si fa quel che si può (ride). Il progetto punta molto sulle giovanili, alleno anche la formazione Under 15 e mi trovo molto bene con i ragazzi. Io ci tengo sempre a puntare a vincere. Quest’anno, come società, vogliamo creare un gruppo per il futuro. Con la prima squadra l’obiettivo sono i play-off, per salire in Serie B. Finora è andata molto bene, siamo secondi.

Quali differenze ci sono tra l’Italia e il tuo paese?

Il problema in Argentina è a livello economico. Faccio un esempio: le palline. Da noi devi comprarle negli Stati Uniti, li paghi in dollari e il cambio è uno a 95 pesos. Ogni pallina diventa cara, va trattata come un bene prezioso e sfruttata fin proprio a quando non ce la fa più. Con il poco, comunque, la Nazionale riesce a fare belle figure. C’è chi è arrivato a giocare negli Usa o anche in Italia. Qui, ci sono i mezzi che da noi mancano. In tutta l’Argentina saranno una trentina le squadre in tutto, la serie B italiana (da sola) ne conta già 32.

Visto da fuori, cosa vuol dire giocare a baseball?

È uno sport che può far chiunque: quello alto, quello basso, quello magro o quello più robusto. Serve il piccolino che corre, mentre in altri ruoli chi ha più potenza e meno velocità. Vogliamo trasmettere questo: una squadra che si senta fiera della città. E viceversa.

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