Omelia proposta dal vescovo in cattedrale, nel giorno dell’Epifania
Siamo giunti all’Epifania, la festa che segna insieme una fine e un inizio. È la fine delle feste religiose inaugurate dal Natale; è la fine, per molti, della parentesi delle ferie-vacanze invernali. Ora il quotidiano torna ad imporsi. Riponiamo suggestioni e simboli. L’albero, il presepe, i parenti invitati o il veglione. Ritornano i doveri di sempre.
Ma proprio per questo l’Epifania rappresenta anche un inizio. L’inizio vero dell’anno non è certamente quello sonnolento del primo gennaio! E oggi il calendario ci indica un nuovo esordio, l’ingresso vero e proprio in un nuovo anno, il principio di un nuovo, metaforico viaggio. Anche la liturgia, attraverso l’annuncio della Pasqua, ci ha indicato le prossime tappe del cammino spirituale: le ceneri, la quaresima, la Pasqua, la Pentecoste.
Ho introdotto il concetto di viaggio perché esso è connaturato con l’Epifania. È stato scritto che “questo giorno costituisce la festa del beato viaggio dell’uomo che cerca Dio nel pellegrinaggio della propria vita, dell’uomo che trova Dio, avendolo cercato”. Lo abbiamo sentito chiaramente nella prima e nella terza lettura: nell’Epifania la Chiesa ci propone fortemente l’idea del viaggio. Isaia scrive: “Cammineranno i popoli (…) Tutti costoro si sono radunati, vengono a te (…). I tuoi figli vengono da lontano (…) Tutti verranno da Saba”; e nel vangelo di Matteo i verbi di moto abbondano: l’evangelista racconta che “Alcuni Magi giunsero da Oriente”; Erode dice loro: “Andate e informatevi”, infine: “Udite le parole del re, essi partirono”. C’è dunque il cammino, al centro dell’Epifania; e già questo è un grande insegnamento. Perché l’idea stessa di porsi in cammino, del tentare il viaggio, contiene una precisa indicazione per la nostra vita spirituale.
Su un castello tedesco sta scritto: “Felicibus cònvenit domi manere”, cioè “Possono restarsene a casa le persone felici”. Preferisco però tradurre quel “felici” con “appagate”, “arrivate”. E se possono stare fissi, fermi, gli appagati, allora chi viaggia, chi si mette per via conserva quanto meno un minimo di inquietudine, di desiderio di incontro e di conoscenza.
Ecco allora il primo, forse semplice ma troppo spesso dimenticato insegnamento dei Magi: la capacità, il coraggio di non stare bloccati; la voglia di partire per cercare. Che è poi la disponibilità a porsi domande, a mettersi in discussione, a non sentirsi già dotati di verità e soluzioni perfette. Metaforicamente, il viaggio dei Magi è un’esortazione per tutti: giovani o anziani; colti o no; dotati di una fede forte o di una fragile: tutti, comunque, dovremmo sempre sentirci in viaggio, in ricerca, per via. Perché la strada della crescita e della maturazione umana, che può anche essere strada alla santità e alla salvezza, non conosce soste; è invece un’avventura infinita, è un continuo, meraviglioso approfondimento.
Ho parlato di inquietudine, di ricerca. Sono concetti cari anche alla cultura moderna. Che però a volte giunge a farne degli idoli pericolosi. A certo intellettualismo l’inquietudine piace così tanto da diventare condizione unica, non superabile, non ancorabile ad alcunché di certo. Pare, a volte, che esista un chiaro compiacimento nel porre domande, salvo poi rifuggire dalle risposte. Per tornare all’immagine utilizzata poco fa, molti oggi amano il viaggio, ma non vogliono mete.
Ebbene, io pur augurando a tutti noi una salutare, perenne inquietudine, voglio però sottolineare con forza come proprio l’Epifania ci indichi nitidamente la necessità di un approdo, di un orientamento. I popoli di Isaia hanno una meta: Gerusalemme, la città del Signore; i Magi hanno una guida e un luogo da raggiungere, rispettivamente la stella e la casa dove stanno il Bambino e sua madre. Capite che questo non è un dettaglio ma un aspetto centrale. La Parola di Dio ci invita al viaggio, alla ricerca, al continuo superamento della nostra condizione. Ma non si ferma lì: a quel viaggio, a quella ricerca, a quella inquietudine dà un fine. Interroghiamoci, dunque; stiamo in via; ma diamoci anche risposte, prefiggiamoci dei punti di arrivo! Logorarsi nel tormento interiore senza prefiggersi approdi spirituali da raggiungere, sarebbe inutile, e lontano dal magistero biblico. I Magi si mettono in viaggio, certo; ma alla fine arrivano al Bambino e si prostrano di fronte a Lui. Raggiungere Cristo dovrebbe quindi essere la nostra meta, la quale – badate bene – non rappresenterebbe comunque mai un possesso definitivo, perché nella conoscenza di Gesù e nell’amore a Lui e ai fratelli si può sempre andare oltre, sempre migliorare.
Un ultimo pensiero mi è suggerito dal fatto che i Magi, sapienti d’Oriente, si prostrino di fronte a un bimbo. Mi sembra un invito inequivocabile all’umiltà della ragione. Si viaggia grazie anche alla ragione, è ovvio; ma perché il viaggio arrivi alle verità della fede, bisogna poi anche sapersi prostrare, con umiltà, con rispetto, accettando, magari senza capire tutto, che il Signore della vita e della Storia sia un Bambino povero, e poi un uomo deriso, e infine un Messia crocifisso.
Senza quella disponibilità della mente (e ancor prima del cuore) il nostro cammino non arriverà a nulla; o comunque non arriverà all’unica, autentica consolazione possibile; all’acqua che toglie la sete, al pane che sazia, alla Risposta che dà senso a tutte le nostre domande.