Che mondo lascia Obama?

Otto anni di presidenza Usa in un mondo in profonda trasformazione economica.

he mondo è – economicamente parlando – quello che lascia Barack Obama dopo otto anni di presidenza della superpotenza mondiale? Quando s’insediò alla Casa Bianca, l’intero pianeta stava assaggiando il morso di quella crisi finanziaria prima, economica poi che ancor oggi si fa sentire ad esempio in Italia. Gli Usa furono i primi ad affrontare immediatamente e massicciamente il problema: fallimento di banche “troppo grandi per fallire”, aiuti di Stato da restituire, cessioni gratuite (vedi Chrysler) di aziende decotte a chi le poteva resuscitare, una marea di dollari stampati e messi in circolazione per stimolare gli investimenti e quindi la ripresa.
Quei soldi hanno fatto il loro dovere: hanno finanziato il boom delle imprese della Silicon Valley, ed ora le varie Apple, Google, Amazon, Facebook dominano il mondo. Ma anche qui come altrove si è assistito ad un generale impoverimento delle classi medie, un abbassarsi continuo delle retribuzioni per renderle un po’ più competitive con quelle messicane o cinesi; una perdita di posti di lavoro (nelle acciaierie, nella manifattura in generale) che si sono trasferiti appunto altrove. Le conseguenze sociali e politiche le tastiamo nel Nordest americano così come nella vecchia Europa.
La Cina si affacciava alla ribalta da protagonista assoluta con le Olimpiadi di Pechino 2008. Da allora, ha fatto tanta strada, anche se ultimamente pare avere il fiato un po’ corto. Ha “neo-colonizzato” alcuni Paesi africani, ha aperto nuove vie di comunicazione per i propri prodotti, è insomma diventata la potenza mondiale numero due, in attesa di spodestare gli Usa. Altre nazioni “emergenti”, che dovevano essere le tigri dello sviluppo mondiale – India, Brasile, Sudafrica, Indonesia, Russia, Turchia – o si sono impantanate, o hanno sofferto la crisi dei valori delle materie prime, che le rendevano importanti agli occhi del mondo.
La Russia, in particolare, ha fatto un suo percorso che l’ha da una parte riproposta come potenza politica ed economica mondiale; dall’altra, ha accresciuto le difficoltà di un’economia tutta basata sulle esportazioni di metano e petrolio.
L’Africa è lentamente cresciuta in alcune sue componenti (Etiopia, Kenya, Angola, Ghana, Marocco); altre si sono fermate (Egitto, Nigeria sopra tutti), altre ancora rimangono ancorate ad un Terzo mondo che fatica a cambiare pelle.
Poi, i due grandi “vecchi” dell’economia mondiale, intendendo una popolazione sempre più anziana e meno dinamica: il Giappone, in fase di stallo quasi trentennale; l’Europa, con un Est che cresce molto lentamente ed un Ovest che declina un po’ più velocemente. Il disinteressamento dell’amministrazione Obama alle vicende europee (gli americani ormai guardano decisamente al Pacifico) ci ha consegnato mani e piedi – in questi anni di crisi – alla superpotenza economica continentale: la Germania, non più “moderata” da una Gran Bretagna sempre più isolatasi, e da una Francia in costante difficoltà.
Purtroppo, l’interesse tedesco non coincide quasi mai con quello del resto dell’Europa: troppa la tendenza a voler “fare come dicono loro”. Quindi l’imposizione di un’austerità di matrice teutonica a chi sentiva di più gli effetti della crisi – Italia in primis – ha tarpato la possibilità di un colpo d’ali per sollevarsi dalla crisi stessa, stroncando chi, come la Grecia, di austerità è quasi morta.
I maligni dicono che la cosa è stata funzionale ad una potenza manifatturiera spesso in concorrenza con noi; i favorevoli, che il rigore tedesco ci ha impedito di fare la fine dei greci. Di nostro, ci abbiamo messo pochino per uscire fuori da una crisi economica che è passata quasi ovunque, salvo qui. Purtroppo non è più tempo né di salvifici Piani Marshall a stelle e strisce, né di una posizione geo-strategica che un tempo era fondamentale per gli interessi americani, mentre ora le nuove classi dirigenti d’oltreoceano sanno che Roma esiste per sentito dire.

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