Omicidio Nada Cella, il gup scagiona l’ex maestra di Montaldo

Ma la Procura non molla. Nelle motivazioni della sentenza il giudice respinge come meri “sospetti” gli elementi contro Annalucia Cecere, ritenendo però evidente il depistaggio delle indagini dei coindagati

Nada Cella

«Tale elemento non può qualificarsi dunque un indizio, bensì un sospetto». Il gup di Genova Angela Maria Nutini ha usato questa formula per bollare come «insufficiente e per alcuni aspetti contraddittorio» il quadro indiziario contro Annalucia Cecere, l’ex maestra da quasi trent’anni residente tra Cuneo e Boves, su cui pendeva una richiesta di rinvio a giudizio per l’omicidio di Nada Cella. Insieme a lei erano accusati, per favoreggiamento e false dichiarazioni al pm, il datore di lavoro della segretaria uccisa a Chiavari nel 1996, Marco Soracco, e sua madre Marisa Bacchioni. Prosciolti tutti, la Cecere per non aver commesso il fatto, gli altri perché il fatto non costituisce reato. Una differenza non da poco.

La pista dei soldi: per il giudice è l’“alternativa più plausibile”

Nella sua lunga disamina, infatti, il giudice si mostra comprensiva con la principale indagata («va anche tenuto conto – scrive – della vita difficile che fece questa donna, orfana da bambina, madre giovanissima, sicuramente desiderosa di accasarsi»), ma spende parole di fuoco nei confronti dei coindagati. Il commercialista Soracco e sua madre sono ritenuti responsabili di un tentativo di depistaggio che «emerge dagli atti con solare evidenza», fin dalle prime battute. Lo prova, secondo la magistrata, anzitutto quell’assurdo impulso a lavare le scale dal sangue della vittima, alterando in modo irrimediabile la scena del crimine. Quanto al figlio, pesano le ritrattazioni sull’ora di arrivo in ufficio: prima indica le nove e cinque, poi cerca di spostare l’orario sempre più in là. È provato anche che qualcuno avesse messo mano al computer di Nada già il giorno del delitto, prima che si potesse svolgere qualsiasi accertamento: perché?

Perché la pista da seguire è un’altra, sostiene il gup Nutini, quella che la Procura indica solo come «movente alternativo» all’ipotesi della gelosia furiosa che Cecere, innamorata di Soracco, avrebbe nutrito per quella ragazza senza nemici e senza grilli per la testa, quasi sua coetanea, che pare le somigliasse molto. L’ «alternativa logica più plausibile» sarebbe la presunta scoperta di «buste con grosse somme di denaro» nello studio del professionista. Un affare losco, forse collegato a un giro di usura: di tutto questo Nada avrebbe parlato a Pasqua con lo zio, un mese prima di morire. Aggiungendo che stava cercando in ogni modo di andarsene ma che Soracco, accortosi di qualcosa, le avrebbe detto di «levarsi dalla testa l’idea di lasciare quell’ufficio». Va detto che sulla pista degli affari sporchi, sostenuta anche dalle dichiarazioni di un collega di Soracco, si indagò già poco dopo il delitto, senza trovare niente. A maggior ragione sarebbe complicato riaprirla adesso, considerato che lo zio di Nada, afferma di non ricordare nulla di queste confidenze della nipote.

Cosa non torna nell’inchiesta 

Ma cosa spinge il gup ad accantonare l’idea che le carte dell’accusa siano «sufficienti per collocare l’imputata sul luogo del delitto»? Anzitutto il fatto che la prova regina da cui partì l’indagine della criminologa Antonella Delfino Pesce, ovvero il famoso bottone trovato in una pozza di sangue, non sarebbe solo di diversa grandezza ma anche di diverso colore, rispetto a quelli sequestrati dai carabinieri a casa della Cecere. Qui però ci si deve basare sui riscontri del 1996, dato che i bottoni vennero restituiti all’indagata e oggi non ci sono più. Poi ci sono i testimoni, cominciando dai due, una mendicante e suo figlio, che dissero di aver incontrato una giovane donna dall’aria sconvolta, con una mano insanguinata e fasciata, a breve distanza dal luogo del delitto. Anche ignorando le incongruenze tra i due e il fatto che non riconobbero in foto la Cecere, scrive il giudice, quel che raccontarono confligge con la testimonianza della “signorina”, ovvero la presunta testimone anonima che chiamò diverse persone nei mesi successivi all’omicidio, compresa la Bacchioni. Alla madre di quello che era allora il principale indagato, la “signorina” disse di aver visto la Cecere accostarsi al proprio motorino in via Marsala, sotto lo studio di Soracco: non era a piedi, dunque.

Aggiungiamo poi che il fascicolo con la richiesta di archiviazione e gli atti d’indagine è andato perduto durante un’alluvione, negli archivi della ex Procura di Chiavari.  Se il movente non convince, nemmeno la dinamica dei fatti induce chi ha valutato i riscontri a collocare l’indagata sulla scena del crimine. L’aggressione sarebbe cominciata nell’ingresso, ma «non è agevole ipotizzare» che Cecere «appena aperta la porta, si sia immediatamente procurata l’arma del delitto». Un particolare a margine: tra gli elementi a sostegno, l’accusa ha menzionato una conversazione carpita tra Soracco e la madre durante le indagini. «Quanto danno ci ha fatto quella donna lì, eh?» aveva detto l’ex professoressa. Riferendosi alla Cecere, secondo il pm. No, replica il giudice: poteva trattarsi di Nada.

La Procura prepara il ricorso

Nemmeno nei confronti di Soracco e Bacchioni, accusati di depistaggio, si è scelto di procedere: perché si è ritenuto che, da indagati, si fossero limitati ad “astenersi dal rendere dichiarazioni autoindizianti o a tutelare il prossimo congiunto”. La Procura, però, non si dà ancora per vinta. Il sostituto procuratore Gabriella Dotto prepara il ricorso, spalleggiata dall’avvocato della famiglia Cella, Sabrina Franzone. Si parla di sviste importanti nelle motivazioni del gup. A cominciare dall’alibi della Cecere (che all’epoca svolgeva le pulizie presso uno studio dentistico): nessuno, ventotto anni fa, ha pensato di chiederne conferma al suo datore di lavoro.

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