Colapesce, a scuola di “Egomostrite”

Lorenzo Urciullo, meglio noto come Colapesce, è uno degli esponenti principali della nuova scena cantautorale italiana. In occasione del suo concerto di Torino, presentato sul palco dell'Hiroshima Mon Amour lo scorso venerdì 13 marzo, l'artista siciliano ha rilasciato al nostro giornale un'intervista in esclusiva.

Lorenzo Urciullo, meglio noto come Colapesce, è uno degli esponenti principali della nuova scena cantautorale italiana. In occasione del suo concerto di Torino, presentato sul palco dell'Hiroshima Mon Amour lo scorso venerdì 13 marzo, l'artista siciliano ha rilasciato al giornale un'intervista in esclusiva. Si parla del nuovo tour, del nuovo disco Egomostro, della sua genesi e del perché forse certi argomenti trovino così spazio.

Come procede il tour, sei soddisfatto?

Sta andando bene, grazie. Torino sarà la settima data, man mano che andiamo avanti con il numero di date il live viene sempre più rodato.

La risposta da parte del pubblico?

Positiva direi. Nelle province forse un po' meno; in alcune città invece molto molto buona. In città come Bologna o Catania abbiamo fatto sold out. In altri posti meno, il disco è uscito da poco. Anche lo scorso tour è andato via via migliorando con il numero di date.

Maledetti Italiani e Egomostro (brano che da il titolo all'album, ndr) sono le due canzoni più “politiche” dell'album, quelle che si discostano maggiormente dal resto.

Maledetti Italiani è uscito con largo anticipo volutamente: il più vicino al “Declino” (il primo disco di Colapesce uscito nel 2011 si intitola “Un Meraviglioso Declino”, ndr) come immaginario sonoro. Hanno una dimensione "politica" in un senso direi ampio del termine; la componente personale è predominante e fa da filo conduttore all'intero disco; elemento distintivo evidente, rispetto al “Declino” in cui c'era un occhio più “esterno”...

Nulla è lasciato al caso, come la scelta “pop”, sparata, del packaging...

Vuole rispecchiare un po' il titolo dell'album che è volutamente eccessivo, l'Egomostro: ci sono io in versione 3D, piazzato sul piedistallo, come massima rappresentazione dell'ego. Tutto doveva ricalcare, dalla comunicazione alla grafica, il fil rouge del disco.

Com'è nata l'idea di parlare di te stesso?

In realtà non è stata una cosa nata a tavolino, non è stata un'operazione fatta “ad hoc” per fare un disco che parlasse di me. Quando scrivo devo avere qualcosa di forte da dire, se no preferisco non scrivere nulla; sono lentissimo a scrivere. Volutamente. La “politica” che adotto un po' con Colapesce è quella di fare i dischi solo quando c'è realmente la necessità e il bisogno di farli, quando uno ha qualcosa da dire.

Tanto più per un progetto solista, e di questo genere... Come Albanopower, un progetto di fruizione diversa, potevi permetterti di concentrarti su altro, su questo no...

Gli Albanopower sono qualcosa di completamente diverso, anche se poi sono sempre io a scrivere i testi dei brani. Come Colapesce oltre a essere un cantautore, mi sento e mi esprimo come un musicista a tutto tondo. Mi piace poter spaziare. Non sono un cantautore di razza puro, cioè nato per fare testi e basta. Quando vinci la targa Tenco come con Il Meraviglioso Declino è un po' come se venissi marchiato del vessillo di cantautore.

Negli ultimi anni molti artisti hanno messo al centro del lavoro l'intimità e la centralità della persona (il torinese Bianco che ti accompagna in tour ha fatto un disco molto intimo; altri come Niccolò Fabi in passato con Ecco). È come se si stia vivendo una fase in cui l'artista guarda verso sé stesso, al proprio “lessico famigliare”, alla ricerca di una identità, cercando di declinare le diverse modalità di guardare al proprio io.

Egomostro in realtà è un disco un po' inusuale, dal punto di vista testuale, perchè se uno va ad analizzare bene la parte testuale si accorge che io non parlo molto bene di me stesso; anzi ne parlo malissimo, ed è in un certo qual modo anche “scomodo” per me. Non è stato molto semplice a buttarlo fuori; ero anche indeciso se farlo o meno. Probabilmente è un periodo storico in cui c'è bisogno di intimità e appunto per questo volevo evitare l'aspetto intimo dal punto di vista sonoro (a parte un paio di brani).

Si sentono tanti suoni di sottofondo e di tastiere...

Sì, è una scelta voluta. Molti brani li ho scritti al piano anziché alla chitarra e quando sono entrato in sala con Mario, Alfredo e Peppe abbiamo fatto parecchio lavoro in fase di produzione. Un lavoro sfiancante, al punto che non so neanche io se lo rifarei.

Rispetto al primo album hai provato a fare qualcosa di diverso: ecco che hai scelto le tastiere, hai preso quella “pasta” sonora tipica di un periodo degli anni '80 molto particolare nella tradizione (anche) italiana. In alcune interviste precedenti hai parlato di Battisti...

Si, vero. Anche se oltre a Battisti, ho fatto una ricerca sonora nella musica italiana di fine anni '70 e primi '80. Mi vengono in mente alcune produzioni dei Mattia Bazar o nel Battisti appunto di Una Giornata Uggiosa o i Talking Heads di Remain in Light. Più o meno la ricerca che ho fatto è stata in quella direzione.

E dicevi che non lo rifaresti più un disco così?

No, non esageriamo: lo rifarei anche cento volte. Ma siccome è stato un lavoro molto impegnativo si crea una sovraesposizione rispetto a quello che fai, lo continui ad analizzare millimetro per millimetro, suono per suono; e dopo un po' è normale avere una forma di allontanamento. Perché ci hai lavorato troppo. Ci tenevo a fare un disco in questo modo, anche se era un azzardo. L'ansia da secondo disco viene: avvertivo la pressione esterna; almeno in un certo momento l'ho avvertita. Quando mi sono reso conto che Un Meraviglioso Declino era andato molto bene ho avuto un blocco a fare il secondo. L'azzardo più grosso era nella produzione, ma essendo un musicista non mi interessava ripetermi o riproporre una formula che aveva funzionato. Altrimenti farei un altro lavoro: per me la musica è ricerca; e uno la deve fare se veramente sente un'esigenza. Qualcuno mi ha chiesto se sia questo nuovo Colapesce: mi vien da rispondere che non lo so; il prossimo disco magari lo faccio completamente diverso. Per la tipologia di disco che volevo scrivere con i testi che avevo, secondo me questa era la veste più “egomostro” che si poteva rendere.

Qual'è la parte negativa di te che viene fuori in questo disco?

Nel brano omonimo forse quando dico “Sono stanco di sentire la parola cambiamento, le mie due certezze | se mi sfiori entro in crisi”: tutti i testi sono incentrato su parti di me che non mi piacciono e che in qualche modo in questo disco ho voluto e cercato di esorcizzare. Una sorta di auto-terapia, un'analisi.

Come in Copperfield o in Brezny...

Si. ci sono un sacco di riferimenti che a tratti possono sembrare delle canzoni d'amore, ma che in realtà non lo sono. Anche in Reale (il prossimo singolo) che è forse il brano con il testo più semplice in realtà parlo di ipnosi regressiva e di argomenti un po' “malati” e per sottolineare l'elemento dell'“egomostrite”: un elemento che ci riguarda tutti, questa smania di consenso che c'è nell'aria, di micro-notorietà che genera poi delle brutture che compromettono anche i rapporti con le persone che ami, con gli amici. Almeno così a me è capitato.

Di fatto parlando di te e dei tuoi difetti, quando dici di aver coniato un neologismo, individui uno dei mali del nostro tempo, della nostra società e forse di una generazione, che è quello di centrarsi su di sé e di dimenticarsi del mondo che ha attorno...

...anche se probabilmente questa cosa c'è sempre stata. I social network però, e le tecnologie, hanno aiutato a creare dei mostri: ognuno di noi avendone la possibilità può, dal banale selfie al post polemico, avere una riscossione immediata del ritorno di immagine. Probabilmente c'è sempre stato, oggi tutto è però più veloce e frammentato al punto che siamo passati dai 15 minuti di notorietà di Warhol ai 15 secondi.

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