Mentre il giornale va in stampa, negli Stati Uniti si sta votando per il nuovo presidente – quasi sicuramente il primo presidente donna della sua storia. La campagna elettorale che si è appena conclusa è indiscutibilmente la peggiore della storia americana, probabilmente anche quella dove le visioni politiche dei candidati sono state relegate maggiormente a comparsa anziché esserne sostanza.
Il populismo e le vicende private sono state gli argomenti costanti e continui del dibattito politico dopo che, nel mese di luglio, le primarie democratiche hanno escluso dalla corsa presidenziale Bernie Sanders, primo candidato nella storia degli Stati Uniti dichiaratamente socialista. Il programma di Hillary ha accolto numerosi punti interessanti del programma del suo “concorrente interno”: dall’incremento del salario minimo orario a 15 dollari, all’impegno a bloccare il TTIP (l’accordo di libero scambio con la comunità europea), al reale impegno sul fronte dei cambiamenti climatici del paese che con la Cina è il maggiore produttore di emissioni di gas climalteranti al mondo. Impegni programmatici che dovranno essere tradotti in politiche reali nei prossimi quattro anni.
Il paese che uscirà dal voto sarà profondamente segnato da una campagna elettorale che ha profondamente diviso gli americani, riportando all’attualità problemi razziali, odio religioso nei confronti delle minoranze islamiche e disprezzo delle differenze di genere. Problemi che la presidenza Obama sembrava avere relegato a ombre del passato. Hilary dovrà recuperare quella credibilità che il presidente degli Stati Uniti (uomo o donna) deve avere nei confronti del suo popolo e che la sua campagna elettorale ha minato in troppe occasioni con mezze verità e cose dette ma non completamente. Questo sarà la vera sfida che dovrà affrontare da domani in avanti. Sulla capacità di Hillary di dare risposte al sempre più pressante bisogno della classe media americana di recuperare quella dignità legata ad un lavoro stabile e retribuito decentemente che la globalizzazione ha distrutto negli ultimi venti anni, si giocherà il suo futuro politico e forse anche quello degli Stati Uniti.
La deriva del messaggio di Trump basato su un paese che si chiude in sé stesso, erigendo muri e teorizzando l’autarchia, rappresenterebbe la fine del sogno americano che da sempre ha costituito il legante della nazione. E che potrebbe trarre nuovo vigore nel caso di una presidenza mediocre.