La storia di Oksana Vladymyr, in fuga dalla guerra

Il giornalismo, un figlio disabile, un radicale cambio di vita. Il percorso di una quotidianità interrotto dalla guerra

«C’è stato un momento in cui ero psicologicamente preparata alla mia morte. Sapevo che avrei potuto morire, e non mi importava. Poi ho pensato ai miei figli. Ho pensato alla traiettoria di una vita che si interrompe, e a quella di una vita che va avanti indefinitamente. Ho pensato che non era giusto, non era giusto che fosse negata loro questa possibilità. Così ho insistito con mia madre perché partissimo».

Nella vita di tutti noi ci sono dei punti di svolta, dei bivi in cui, di fronte a una scelta, prendiamo una decisione che cambierà il corso della nostra esistenza. Un momento sottile, ma tanto profondo che è difficile, a lungo termine, intuire come sarebbe andata se avessimo preso l’altra strada. Nella vita di Oksana Vladymyr, e dei suoi familiari, questo è stato il momento cruciale. Il momento in cui in una piccola città, tra gli echi dei bombardamenti, con un continuo flusso di news consultato compulsivamente, quasi fosse il filo d’acqua che una fontana elargisce a un assetato cronico, Oksana e la sua famiglia decidono che è il momento di mettersi sulla strada per fuggire dalla guerra, affrontando un lunghissimo viaggio fino all’Italia, a Peveragno, dove hanno trovato asilo presso la casa che fu di don Giorgis, messa a disposizione dall’Associazione “La Tenda dell’incontro”.

Di bivi nella sua vita Oksana ne ha incontrati più di uno, non facili e soprattutto inattesi. Non solo il classico “Cosa vuoi fare da grande?”, ma anche, ad esempio, l’arrivo di un bambino affetto da disabilità psichica. Una grande sfida, nell’Ucraina post-sovietica, che si stava lasciando alle spalle tante cose dell’Urss tra cui il difficile rapporto con questo tipo di patologie.

«Un tempo i ragazzi come mio figlio sparivano nelle cliniche, si tendeva a nascondere, a lasciarli al loro destino. Così in quegli anni nessuno sapeva niente di come ci si relaziona con questi ragazzi. Ho dovuto imparare tutto da sola. Mi sono messa a studiare, mi sono procurata dei libri. Ho cercato di formare me stessa per confrontarmi correttamente con lui, capire i suoi bisogni, aiutarlo a crescere».

È una scelta che se ne porta dietro un’altra: quella di diminuire il suo impegno lavorativo, ridimensionare le ambizioni professionali. Oksana è una giornalista, comincia lavorando in radio, televisione e nei grandi network di informazione. In seguito si sposta sul versante del marketing e della comunicazione per le aziende. I suoi ritmi sono frenetici, è molto apprezzata nel suo lavoro. Nel frattempo si sposa, mette su famiglia. Nasce il primo bimbo, poi il secondo. Adattarsi ai ritmi di vita di un ragazzo, per di più speciale come suo figlio, non è facile. Così Oksana decide di ridurre gli impegni lavorativi e completare la sua proposta insegnando yoga, la disciplina che ha appreso nel frattempo e che è diventata una passione. Quando sulla sua vita piomba l’invasione russa aveva appena finito di preparare gli spazi dove ospitare la sua classe di allievi.

«I media avevano iniziato a martellare l’opinione pubblica sulla possibilità della guerra imminente da diversi mesi, al punto da generare nella popolazione una sorta di stanchezza – racconta Oksana –. Molti rifiutavano l’idea, non ci credevano perché esasperati da mesi di notizie che non lasciavano presagire nulla di buono. C’era un brutto clima nei mesi precedenti. Sapevamo che da otto anni l’est dell’Ucraina era un fronte “caldo”. Ricordo quella sera, quando hanno dato la notizia, era un giorno come un altro. Solo il pomeriggio precedente io e mio marito stavamo pianificando le nostre vacanze, non c’era nulla che facesse presagire il precipitare degli eventi. Al mattino mi ha svegliata e mi ha detto che stavano bombardando Kiev, dove vive mia sorella. Mi ha detto “Chiamala, dille di spostarsi in campagna è troppo pericoloso stare in una grande città”. Anche io e mia madre abbiamo seguito la stessa precauzione, ci siamo spostate in una città più piccola».

Trascorrono due settimane, un periodo di continua paura ed ansia, per sé e per i suoi cari. «Sono state giornate difficili. È curioso, perché alcuni di questi li ricordo in modo estremamente nitido, perché mi hanno colpito molto emotivamente. Ci svegliavamo alle 4 solo per leggere le ultime notizie. Dormivamo a turno per non farci sorprendere dai bombardamenti, sarebbe stato troppo pericoloso. Ho iniziato a dormire di giorno, perché era più sicuro. Poi un giorno è arrivata la notizia che avevano bombardato Chernobyl. Questo ha fatto scattare qualcosa dentro di me. Ero bambina quando è accaduto l’incidente dell’86. Ricordo che avevo un’amica che aveva perso il padre per le radiazioni. Era stata una fine orribile, in Ospedale supplicava di lasciarlo morire. La notizia ha scatenato una psicosi: tutti si sono messi a comprare iodio in farmacia contro le radiazioni». Oksana inizia a insistere per convincere la madre e la sorella che è tempo di lasciarsi l’Ucraina alle spalle e tentare di cercare un rifugio.

«Sono stati momenti difficili, perché non si può decidere e partire un minuto dopo. Non sapevamo cosa fare. Ci sentivamo completamente soli, inermi, impotenti. Ho iniziato a parlarne con mia madre, dicendo che dovevamo fare qualcosa, non per noi, ma per i bambini. Avevamo una macchina, potevo guidare. Dovevamo provarci. Mia madre non voleva abbandonare la casa, il cane. Ma la vita è più importante di tutto». Inizialmente il piano è raggiungere la Polonia e cercare ospitalità a casa di amici, per poi puntare sulla Spagna, dove c’erano alcuni conoscenti. Tuttavia il viaggio è troppo lungo, e si decide di ripiegare sull’Italia. «Non ho mai guidato tanto in vita mia, è stato molto stressante. Abbiamo attraversato la Polonia, poi l’Austria e poi ci siamo mossi verso l’Italia, dove mia madre aveva scritto alla comunità di padre Alessio, che ha risposto molto rapidamente che c’era la possibilità di essere ospitati. E così siamo arrivati in salvo. Siamo passati dall’inferno al paradiso. È esattamente il modo in cui mi sentivo una volta arrivata qui. Un senso di liberazione».

Resta naturalmente il pensiero, l’assillo costante per le persone care e gli amici che sono rimasti laggiù, sotto le bombe. «In questi giorni fatico a dormire, per la preoccupazione. Mi hanno avvisato che avevano bombardato vicino a casa nostra. Un missile ha colpito l’autocarrozzeria a cui ci rivolgevamo normalmente, a Leopoli, il titolare è rimasto ucciso, ha un figlio di sei anni. Questo luogo è a pochi chilometri da casa mia, mio marito è ancora laggiù. Ho amici che stanno vivendo nei sotterranei per rifugiarsi dalle bombe. Anche un mio ex-compagno di scuola ha perso la vita: era giovane, aveva tre figli. Non faccio altro che pregare. Spero che questo li aiuti».

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