E’ proprio paura ad andare a… vivere da soli?

Tra i ragazzi che rimangono a casa con mamma e papà, il 25% ha un lavoro a tempo indeterminato ed a tempo pieno e si ferma al 20% il gruppo dei disoccupati.  E poi il 42% è rappresentato da figli che studiano ancora. La crisi incide, non si può negare. Ma c’è anche altro

Si sono cimentati in tanti a commentare il dato emerso da Eurostat sulla situazione in cui si troverebbero i giovani italiani (in età 18-34 anni), restando due su tre ancora in casa con papà e mamma. Insomma vivrebbe in famiglia il 67,3% di questa ampia fascia giovanile, mentre in Francia ed in Gran Bretagna si attesterebbe – lo stesso riscontro – al 34%, in Germania al 43%, in Europa mediamente al 47,9%. Facile fare battute disinvolte, al riguardo. Magari evocando il famoso termine accreditato solo ieri, cioè quello di “bamboccioni”. Ma – di getto – non ci si può aggrappare a stereotipi più o meno azzeccati. Intanto c’è pure da risalire a questo quadro familiare che frettolosamente si liquida come sconsolante. Infatti se si va a scavare negli altri dati, si hanno altre piccole-grandi sorprese. Tra i ragazzi che rimangono a casa con mamma e papà, il 25% ha un lavoro a tempo indeterminato ed a tempo pieno e si ferma al 20% il gruppo dei disoccupati.  E poi il 42% è rappresentato da figli che studiano ancora. La crisi incide, non si può negare. Ma c’è anche altro. E’ troppo parlare di un contesto culturale o sociale? Forse no. Perché se non vanno demonizzati tout court i legami familiari che durano a lungo, sul terreno concreto della coabitazione, ci deve interrogare sulla soglia ideale oltre la quale andare a vivere da soli o restare a condividere con i genitori spazi e momenti. Mantenere i contatti con papà e mamma non è di per sé un male. Se deresponsabilizza, se sa di comodo, se risente di pigrizia, se fa apparire come dei… profittatori… certamente bisogna darsi una regolata. Ma forse è improprio generalizzare, senza scampo. Si deve ritornare a ragionare sull’assunto che ritorna spesso: “L’Italia non è Paese per giovani”. Infatti dal recente rapporto Caritas si evidenzia che cresce la povertà tra under 35 ed invece arretra tra gli over 65 anni. E poi ci sono 107 mila nostri giovani che vanno a lavorare all’estero. Il chiaroscuro allora si propone come la cifra predominante. Ed il raffronto di generazioni giovanili di ieri e dell’altro ieri, da chi aveva 18 anni nel ’68 a chi era chiamato a vent’anni sotto le armi per le guerre che hanno insanguinato il secolo scorso, ai papà venticinquenni ed alle mamme ventenni del passato neanche tanto lontano… può anche pungolare per capire se oggi si sta ritardando un po’ tutto, nei passaggi di consegne e nel ricambio ad assumersi responsabilità. Se le nostre famiglie sono più disponibili a far largo ai giovani figli al loro interno, ospitandoli più a lungo, possono apparire anche un punto fermo per darsi una mano, per relazioni più “calde” e meno intransigenti, per un reticolo di sostegni che comunque rappresenta un modo altro di pensare le relazioni. Il nodo cruciale e delicato riguarda invece il cammino verso la maturità delle nuove generazioni. Ci si sta preparando alla vita o ci si sta defilando? Si costruiscono responsabilità o ci si chiama fuori? Si guarda alla famiglia di origine come ad un paracadute o come ad un luogo vitale che sostiene nell’approntare una nuova famiglia in proprio? Si è zavorra o sanguisuga in casa da giovani che non schiodano dalle pareti domestiche o si è protagonisti, coinvolti, creativi, disponibili anche restando all’ombra di papà e mamma?  Insomma il tutto è più complesso di quanto lo si possa dipingere e pennellate che portano via il pezzo…

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