«Reduci, non eroi»: mandati a morire lontano dall’Italia

Il peso della riflessione nelle parole degli alpini che vissero la tragedia della Russia: «Morti per senso del dovere».

«Me la ricordo eccome, Nowo Postojalowka. Morimmo quasi tutti: della mia squadra rimasi solo io. E poi mi ricordo tutto ciò che arrivò dopo». Il signor Leonardo Salsetti parla con gli occhi fissi a terra, mentre rievoca quelle immagini. Si presenta dicendo subito il suo grado: «Ero sergente, nel “Ceva”». Segno che è vero quel che si dice: chi è stato alpino, lo resta per sempre. Lui è uno dei quattro reduci della Russia che hanno presenziato alla manifestazione di Mondovì. Ma nelle sue parole non c’è retorica e, anzi, viene a galla una riflessione molto seria.

«Ricordo bene i giorni dal 17 al 20 gennaio – racconta –. Ci trovammo a fronteggiare un nemico che ci superava in tutto. Morirono quasi tutti i miei amici, fummo più che decimati. E ricordo i giorni successivi: camminavo nella neve senza fermarmi né guardarmi indietro… fin quando non andai quasi letteralmente a sbattere contro gli uomini della “Tridentina”». Al suo fianco c’è Giovanni Alutti: alpino di 101 anni: ora vive a Carmagnola, ma era sergente maggiore del “Borgo San Dalmazzo”. «Sono i nostri reduci – dice il generale Massimo Biagini, comandante della Taurinense –: agli alpini non piace essere chiamati “eroi”». Fra le tante parole, fra gli alpini di oggi e di ieri, si avverte una memoria più genuina, più rispettosa e meno retorica. Chiediamo a Leonardo: quale senso ha, oggi, la memoria di questa vicenda? «Ha una grande importanza, perché se ne parla poco. Ma è giusto dire che c’è una grande differenza rispetto alle guerre precedenti: la prima Guerra mondiale era una guerra di difesa dei confini, della patria. La campagna di Russia fu tutta un’altra cosa: fummo mandati a morire lontano da casa, per una guerra che non aveva nulla a che vedere con la nostra patria». Non a caso molti alpini, tornati a casa, salirono sui monti a combattere i nazisti. Anche il presidente nazionale dell’ANA, Sebastiano Favero, lo ripete: «È ora di smetterla di accomunare gli alpini al fascismo: sono andati là per compiere il loro dovere, non perché erano volontari. Quel passato non ci appartiene».

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