Messi in ginocchio dal sisma, inginocchiati a pregare

E’ una prima, quasi istintiva, reazione e risposta alle ferite ad un territorio vissuto da secoli, intriso di arte, di storia, di fede, di tradizioni e di vita. Può stupire o sorprendere.

Suore, monaci e credenti che pregano in piazza, davanti alla basilica in macerie per il terremoto, a Norcia, domenica mattina, dopo la scossa terrificante per intensità (6,5 di magnitudo): un’immagine che interpella, dentro gli scenari da quasi apocalisse, tra crolli, polvere, mattoni, pietre, fessure, voragini… E’ una prima, quasi istintiva, reazione e risposta alle ferite ad un territorio vissuto da secoli, intriso di arte, di storia, di fede, di tradizioni e di vita. Può stupire o sorprendere. Ma l’attitudine di chi guarda più in là, più in alto, più in profondo… porta a questi gesti tutt’altro che banali. Perché intanto si era lì, subito dopo il disastro, anche a ringraziare per essere ancora vivi dopo il colpo micidiale inferto dal sisma. E si era lì a mettersi e a mettere nelle mani di Dio, percependo il proprio limite, la propria fragilità, la propria debolezza, i propri affanni, forse la propria umana disperazione. Il creato si porta appresso una precarietà che richiede all’uomo un surplus di consapevolezza, di attenzione, di impegno. I cieli nuovi e la terra nuova, come ci ricorda l’Apocalisse (il libro di biblico della speranza cristiana), devono ancora venire. Ora la terra resta sotto il segno dell’incertezza. Sui terremoti l’uomo può poco, non riuscendo a prevederli. Può invece prevenire i danni. Anche se ci sono costi davvero importanti. Ma la vita delle persone vale molo di più. E non ci si deve arrendere a questi calcoli al ribasso. Per altri disastri ambientali, climatici, sull’eco-sistema… l’umanità ha pesanti responsabilità, per guasti che si potevano evitare.
Il sisma però rimane lì come un tormento che angoscia, mette panico, spaventa, rende tutto fragile e precario, sospeso ad un filo ovvero ad una scossa imprevedibile. Pregarci su fa diventare pensosi. Invocando da Dio, che è Padre, un aiuto nello stile dell’incarnazione, perchè faccia sentire suo Figlio al fianco di quell’umanità sofferente, che Lui ha preso su di sé, ha rivestito, in cui si è ritrovato. Non ha scansato il limite, lasciandolo sulle spalle dell’uomo. L’ha assunto, vi si è calato dentro, per assicurare che non si è abbandonati, che il Padre “non vuole che alcuno si perda”. Pregare allora equivale a porsi dentro quella logica, dove decisiva è la fede. Che poi si rivela nei gesti dei fratelli che danno una mano. Non si può fermare la scossa, ci si può far carico delle difficoltà. Cercando insieme una umanità nuova, più solidale, più aperta all’altro, più sostenibile perchè sostiene il debole ed il ferito. I drammi ci mettono in ginocchio. Ma anche la fede ci fa inginocchiare, accanto al Signore che ha pianto per l’umanità sbandata.

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