Duomo gremito a Piazza per l’apertura dell’anno pastorale

Il vescovo: priorità ai giovani ed alle vocazioni

Cattedrale gremita, domenica sera, a Mondovì Piazza, per il momento condiviso di apertura dell’anno pastorale, attorno al vescovo mons. Egidio Miragoli. La preghiera dei Vespri ha racchiuso anche la professione di fede ed il giuramento dei nuovi parroci, nonchè l’affidamento del mandato a catechisti, animatori di oratorio, responsabili di gruppi giovanili… mentre tutta l’attività nelle parrocchie sta riprendendo. Il vescovo, in una riflessione articolata, si è soffermato in particolare sulle tematiche cui dare la priorità da subito, ovvero l’attenzione ai giovani (in sintonia con il Sinodo dei vescovi che si aprirà ad inizio ottobre) e con la cura delle vocazioni al ministero ordinato ed alla vita consacrata. Soprattutto su questa prospettiva della “chiamata”, mons. Egidio Miragoli ha invitato tutti a non subire passivamente una sorta di resa, vincendo ogni pessimismo, affidandosi al Signore nella preghiera ma anche assumendosi con coraggio responsabilità ripartite nella cura delle nuove generazioni. In particolare per questi obiettivi il vescovo ha anche annunciato la riproposizione delle dinamiche dell’Ufficio per la Pastorale giovanile e vocazionale, che potrà contare sul responsabile confermato don Federico “Pucci” Suria, sulla collaborazione di don Marco Giordanengo per le vocazioni laicali e su don Federico Boetti per le vocazioni al ministero ordinato (anche quale referente diocesano per il Seminario interdiocesano a Fossano). In chiusura il vescovo, grato per la partecipazione di tanti, ha augurato un buon anno pastorale a tutti con un incoraggiamento ai nuovi parroci a cui ha rinnovato la riconoscenza per la disponibilità dimostrata.

"In colui che ci dà forza" - La riflessione del vescovo

Omelia del vescovo Egidio per l’apertura dell’anno pastorale 2018-2019
Cattedrale di Mondovì, 23 settembre 2018

1. RINGRAZIAMO CON GIOIA DIO:PORTALE D'INGRESSO DEL NUOVO ANNO PASTORALE

Con un’immagine presa dall’architettura, questo testo biblico appena ascoltato (Col 1,3.12-20) è stato definito, e di fatto costituisce, il "portale d'ingresso" della prima lettera di San Paolo ai Colossesi, ma credo che possiamo vedere in esso anche il portale d'ingresso all’anno pastorale 2018-2019, che oggi insieme iniziamo nella preghiera.

Le parole di San Paolo costituiscono un’ampia formula di ringraziamento, e mi pare che essa individui l’atteggiamento interiore ideale per chi, come noi, si accinge a un nuovo tratto di strada. Iniziare lodando Dio, infatti, significa iniziare nella consapevolezza del bene che abbiamo ricevuto e nel quale operiamo. Vuol dire, con un colpo d’ala, liberarci dall’inclinazione al pessimismo e al mugugno, per vivere con gioia questa ripresa condivisa di anno pastorale, cercando di proiettare entusiasmo sul nostro cammino nel corso dell'anno.

La lode dell’apostolo, e nostra, sale a Dio, Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha liberati dal potere delle tenebre, ci ha perdonati e redenti dal peccato, ma soprattutto, ci ha reso partecipi "della sorte dei santi nella luce".

Sono parole che dicono cose straordinarie. Sono concetti alti, forti, fondamentali, che forse non riusciamo nè riusciremo mai neppure a capire ed apprezzare del tutto, né ad applicare con piena lucidità a noi stessi. Eppure, noi siamo questi: dei liberati dal dominio delle tenebre, dei perdonati, dei redenti: San Paolo ci ricorda qui la grandezza della nostra vocazione e il segreto della nostra dignità.

Dentro tutto ciò, del resto, sta anche il nostro umile ringraziamento a Dio per i doni di cui circonda la nostra Chiesa: le diverse vocazioni e i diversi carismi, la fede vissuta nelle nostre comunità parrocchiali e nelle nostre famiglie, la generosità e la passione di tanti giovani e adulti nel testimoniare il Vangelo e nel mettersi al servizio delle nuove generazioni o degli ultimi, la determinazione al bene che con ostinata perseveranza opponiamo ai tanti esempi di male che pure ci assediano.

Personalmente, inserisco e aggiungo il ringraziamento al Signore per essere stato chiamato, senza mio merito, a presiedere questa comunità ricca di storia e di fede. Anche umanamente considero, la possibilità di aver conosciuto ognuno di voi, un dono inimmaginabile che fa nuova la mia vita ogni giorno.

Davvero, ognuno di noi ha motivi per essere riconoscente a Dio. Ma la riconoscenza, se è autentica, non può bastare a se stessa, non può accontentarsi di se stessa: nasconde anche un imperativo. Proprio perché nasce dalla consapevolezza di ciò che siamo e dei doni che abbiamo ricevuto, la nostra gratitudine a Dio contiene lo sprone a lavorare nella sua stessa prospettiva, ovvero a sentirci figli del Regno anche nella pratica quotidiana e a impegnarci per far conoscere il Cristo e portarlo ai nostri fratelli. Una lode a Dio fatta di sole parole sarebbe una lode inerte, che non cambia il mondo. Un esercizio fine a se stesso che disinnesca il potenziale di operatività che Dio stesso ha posto in noi.

2. LA BELLEZZA DEL RICOMINCIARE

C’è un bellezza profonda nel ricominciare. Ognuno di noi la percepisce, dopo il riposo estivo. Il vero anno comincia a settembre, checché ne dicano i calendari. Si torna dalle vacanze e ci si dedica alle cose della vita con rinnovata forza, anche con una certa gioia di ritrovarle. La stanchezza di prima delle ferie lascia il posto a un fresco desiderio di agire dentro “l’opera del mondo”, e ciò vale anche per l’anno pastorale e in ambito ecclesiale: anche per la Chiesa e per la vigna del Signore è settembre, tempo di ripresa e di speranza nel futuro. Nel dire “grazie” al Signore, gli diciamo anche che siamo qui per rimboccarci le maniche, lavorare per fare del mondo un luogo un poco migliore, delle nostre parrocchie delle comunità fraterne ed evangeliche.

3. INSIEME PER UNA NUOVA EVANGELIZZAZIONE

Sarà un lavoro personale, per ognuno diverso, certo.
Ma sarà anche un lavoro, un cammino comunitario, e naturalmente noi qui possiamo soffermarci solo su questo secondo.
Ebbene, quale bussola terremo davanti agli occhi, come Chiesa?
Terremo l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium di papa Francesco: non un documento tra i tanti, non un documento in più, ma il documento programmatico, come dice lo stesso papa Francesco (EG 25).
Nel ricordarci “la gioia del Vangelo”, esso ci chiede una trasformazione, per entrare in uno stato permanente di missione, e ci chiede di predisporre i mezzi necessari.
Non c’è dubbio che attraversiamo un momento duro per la Chiesa, tempo anche di errori e di umiliazioni, ma forse anche per questo si tratta di un tempo propizio a un rinnovato impegno di testimonianza.

Fra gli assi portanti che Papa Francesco suggerisce, nel documento e nel suo magistero, faccio cenno solamente a due, che vorrei diventassero davvero linee guida del nostro operare come Chiesa:
l’Annuncio fondamentale (in parola greca il Kerygma) e i destinatari.

Il sottotitolo del documento parla "dell'annuncio del Vangelo nel mondo attuale”. Questo è il primo asse. Annunciare che cosa? Non tutta la dottrina, non tutta la complessità del Catechismo, ma l'annuncio del Kerygma, il primo annuncio, "il principale, quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi e che si deve sempre tornare ad annunciare", ovvero "la bellezza dell'amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto".
Scrive il papa: “Quando si assume un obiettivo pastorale e uno stile missionario, che realmente arrivi a tutti senza eccezioni né esclusioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa” (EG 35). E in questo nucleo fondamentale ciò che risplende è appunto la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Cristo morto e risorto. Qui c’è tutto, tutto l’essenziale.
Vorrei dire, anzi mi pare di capire che il papa intenda questo: in una civiltà in cui la comunicazione si è fatta essenziale, rapida e sintetica, occorre enucleare il messaggio fondamentale che non può non giungere con efficacia alla mente e al cuore delle persone, perché queste possano coglierne la bellezza, ed esserne personalmente attratte.
Il papa, nel suo testo, usa poi parole diverse e stili diversi per esprimere il kerygma, quasi fossero altrettanti tweet capaci di farsi spazio nella confusione dell’oggi. Scrive, per esempio: "Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”; oppure: "il tuo cuore sa che la vita non è la stessa senza di lui”. Sono quasi slogan, ma al servizio della verità prima, del nucleo centrale del Cristianesimo.

Nel nostro tempo, d’altronde, è difficile far risuonare la parola del Vangelo. Lo sanno i sacerdoti, lo sanno bene i catechisti. Non per caso, lo stesso Papa Francesco, parlando al mondo universitario a Bologna nell’ottobre 2017, ha utilizzato una bella immagine che possiamo adattare all’impegno di evangelizzare. Disse:
“È da reclamare il diritto a non far prevalere le tante sirene che oggi distolgono dalla ricerca di Dio. Ulisse, per non cedere al canto delle sirene, che ammaliavano i marinai e li facevano sfracellare contro gli scogli, si legò all’albero della nave e turò gli orecchi dei compagni di viaggio. Invece Orfeo, per contrastare il canto delle sirene, fece qualcos’altro: intonò una melodia più bella, che incantò le sirene. Ecco il vostro grande compito: rispondere ai ritornelli paralizzanti del consumismo culturale con scelte dinamiche e forti, con la ricerca, la conoscenza e la condivisione”. Detto per noi: dobbiamo, non solo riproporre continuamente il Kerygma, ma anche tradurre il Kerygma, attualizzarlo, imbastire le parole più belle e più consolanti, più liberanti e nobili che possano giungere comprensibili alle orecchie dei nostri contemporanei. La sfida dell’evangelizzazione è anche questa.

4- IL SINODO CI ADDITA UNA PRIORITÁ

Per quanto concerne i destinatari del nostro impegno pastorale, invece, dobbiamo avere presente sempre che tutti hanno il diritto di ricevere il Vangelo. Noi cristiani abbiamo il compito di annunciarlo senza escludere nessuno, "non come chi impone un nuovo obbligo, ma come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello”, scrive il papa. E la gioia e la vita non possono essere additate a qualcuno sì e a qualcun altro no. Possono e devono giungere a ogni cuore, e non attraverso nuove o grandi strutture pastorali, ma grazie al contatto con il popolo di Dio, da persona a persona. Ogni uomo è infatti degno della donazione di noi stessi. Senza contare che proprio quando ci doniamo nell’annuncio della Buona Notizia, del Vangelo, facciamo anzitutto di noi delle persone più degne.

In questo orizzonte, però, temo vada ravvisata una assoluta priorità: quella dei giovani.
La celebrazione del Sinodo per i giovani traccia del resto una precisa indicazione di marcia, che concerne tanto l'azione dei sacerdoti quanto il cammino dei giovani stessi.

-I sacerdoti e la riscoperta dell’accompagnamento personale
Circa i primi, dobbiamo ammettere una verità dolorosa: è diminuita la sensibilità per il dialogo personale, per l’incontro personale, per l’accompagnamento spirituale personale. Non si trova più tempo, si dice di non avere tempo... Non c’è tempo per dedicarsi al singolo, non c’è tempo per l’ascolto, per la direzione spirituale, addirittura per le confessioni...Come avessimo perduto quell’attitudine fatta di delicatezza e generosità che serve per chinarsi sulla vicenda dell’altro e farla propria, seguendola con rispetto ma anche con attenzione.
Non per caso, torna preziosa l'Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, là dove insiste sulla necessità “di esercitarci nell’arte di ascoltare (…) L’ascolto ci aiuta a individuare il gesto e la parola opportune”, scrive il papa, perché “chi accompagna sa riconoscere che la situazione di ogni soggetto davanti a Dio e alla sua vita di grazia è un mistero che nessuno può conoscere pienamente dall’esterno”.

Un invito – meglio, una ulteriore precisazione - in tal senso arriva anche da una pagina profonda di Etty Illesum (giovane ebrea morta in campo di concentramento). Scrive nel suo diario: "Certamente ogni essere umano crea il suo ‘destino’ dall'interno.. Ma attenzione: le situazioni su questa terra non sono poi molto numerose: si è marito, padre, si è moglie, madre, si è in prigione o si fa la guardia. Solo che quel che determina il destino non è il fatto in sé, ma il nostro atteggiamento interiore verso quel fatto.È questo che determina il nostro destino. È lì la nostra vita. Di conseguenza non si può conoscere la vita di una persona se se ne conoscono solo i fatti esterni. I fatti non differiscono molto da una vita all'altra. Per conoscere la vita di qualcuno bisogna conoscere i suoi sogni, gli stati d'animo, i rapporti con il coniuge, con la morte, le sue delusioni e le sue malattie”.

Quel che pare determinante a Etty Illesum è l'atteggiamento interiore, quello che si è formato nella coscienza profonda, ciò che si è via via diventati nella vita, coltivando la propria umanità. È l’homo interior che, cari sacerdoti, va conosciuto, seguito, amato con tutta la tenerezza e la saggezza possibili, perché quel lungo lavorio del cuore e della mente sappiano infine farsi scelta di vita.

-I giovani e il coraggio delle scelte totali
Se penso, invece, a voi, giovani animatori e catechisti (ma non solo) che nel corso di quest’estate ho avuto modo di incontrare e conoscere personalmente ai campeggi, occhi e cuore mi rimandano il ricordo di alcuni momenti molto belli.
Ho potuto notare l’impegno, il tempo, la passione e la dedizione che stavate investendo nel corso di più giorni per prendervi cura di altri ragazzi e ragazze. Esperienze ricche di significato, utili e belle, che non devono però rimanere isolate, bensì inserirsi in un cammino che si svolga nel corso di un anno. Che senso avrebbe piantare un alberello, una vite, e poi non coltivarla e lasciarla vivere solo una stagione?
Questo è, dunque, un primo passo da compiere: dare continuità a uno stile di impegno e donazione che sarebbe penalizzante confinare al solo momento della vacanza estiva.

Ma io penso anche alla possibilità e alla bellezza di una intera vita spesa per Dio e i fratelli, penso alla vita spesa nel sacerdozio o nella vita consacrata. Se tutte le vocazioni sono importanti, proprio perché vocazioni, ovvero chiamate di Dio e risposte date a Dio, e proprio perché implicano la donazione di sé per sempre, tuttavia la Chiesa e il ministero ordinato credo meritino un discorso particolare, poiché, se la Chiesa di Cristo vuole in qualche modo garantire la propria permanenza e il proprio futuro, il sacramento dell’Ordine diventa fondamentale, decisivo.
La speciale preoccupazione che come vescovo devo avere per il seminario e le vocazioni sacerdotali trova in questo principio la sua fondazione ecclesiologica. Riprendo l’immagine della vite: o la vigna del Signore trova nuovi operai, giovani ed entusiasti, oppure via via, uscendo di scena, gli anziani la abbandoneranno a un triste destino di irrilevanza e di decadenza.
Lo so, il pensiero di chi ama Dio e la Chiesa si ribella: subito reagiamo dicendo a noi stessi che Cristo non abbandonerà la sua sposa, che lo Spirito susciterà nuove vocazioni. Ma, se è cosa buona e giusta avere fede, resta pur vero che l’amore di Dio e la chiamata dello Spirito debbono trovare un terreno dissodato, dei cuori sensibili, una mentalità aperta, almeno la disponibilità ad interrogarsi. Ogni sollecitazione - specie se rispettosa, come quella di Dio - necessita di attenzione e di una risposta positiva, perché il disegno si compia. Per questo, sono a chiedere l’impegno di tutti: poniamo al centro il tema delle vocazioni al sacerdozio, come priorità di questi anni che ci attendono.
Non possiamo rassegnarci a pensare che i nostri sacerdoti saranno sempre meno, non possiamo rassegnarci a pensare che le nostre comunità non abbiano più l’Eucaristia, che la nostra diocesi possa essere accorpata ad altre per mancanza di clero, che anche il seminario interdiocesano di Fossano debba essere chiuso, che questi decenni siano quelli che riducono ulteriormente la presenza di preti nei nostri paesi. Non dobbiamo cedere al pessimismo, né lasciare che trionfi la mentalità consumistica ed edonistica che rifiuta pregiudizialmente l’impegno definitivo.
“Una delle tentazioni più serie che soffocano il fervore e l’audacia è il senso di sconfitta che ci trasforma in pessimisti scontenti e disincantati dalla faccia scura. Nessuno può intraprendere una battaglia se in anticipo non confida pienamente nel trionfo. Chi comincia senza fiducia ha perso in anticipo metà della battaglia e sotterra i propri talenti” (EG 85).
In positivo, e lo dico con forza e convinzione ai giovani presenti e non: donarsi nella vita sacerdotale è bello, dà un senso particolare ai giorni, dà la gioia unica di spendersi per gli altri e di essere guida di una comunità, la gioia di far crescere e veder crescere e maturare degli uomini e delle donne.

5- CONCLUSIONE

“Omnia possum in eo qui me confortat” (Fil 4,13) è il mio motto episcopale, tratto da San Paolo e ripreso da santa Francesca Cabrini, santa lodigiana. “Posso tutto in colui che mi dà la forza”. Denota fiducia in Dio e ottimismo. Applicato al tema delle vocazioni sacerdotali, esso mi induce a credere di potere fare qualcosa perché fra i giovani qui presenti possa esserci il vicario generale di domani, un vescovo di domani, i vicari parrocchiali di domani, numerosi sacerdoti pronti a una vita santa e gioiosa, ricca e limpida nella donazione, come sono quelle di tanti sacerdoti anziani e giovani di questa diocesi che vado conoscendo o che ho già visto ritornare al Cielo.

La vigna è grande, il bisogno di vignaioli lo stesso: possa, chi ha sperimentato parzialmente la bellezza del servizio ai fratelli nel catechismo o durante i campeggi estivi, considerare l’ipotesi di farne la bellezza di tutti i suoi giorni. Io prego per questo. Ma voi abbiate una certezza ben radicata nel cuore: il Signore non delude. Mai!

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