Addio a Pier Destefanis: una vita al servizio degli altri in Africa, è morto in ospedale a Mondovì

Mezza vita passata in Africa, al servizio delle ONG in una terra troppo spesso dimenticata da tutti. Se ne è andato all'ospedale di Mondovì Pierangelo Destefanis, 69 anni. Per anni, quasi metà della vita, ha viaggiato seguendo la spinta dell’animo e la voglia di stare vicino alle persone. Da circa un anno era rientrato in Italia. Lascia cinque figli: le piccole Paola, 9 anni, e Margherita (arrivata in Italia con lui) , 12 anni, e i tre figli Martino, Stefano e Giacomo.

«Io sono cittadino del mondo - diceva di sé stesso -. Per me esiste una sola nazione, unica, ed è la Terra-patria. Ed è così che ho chiamato la mia Associazione, prendendo il nome dal libro di Edgar Morin». Un "umanitario comunista", si definiva così, «col cuore politico dalla parte di Guevara e Mao, ma con le dita in tasca mi facevo il segno della croce». Era ricoverato al "Regina Montis Regalis", malato di covid.

Nato nella Val Bormida, a Cortemilia, aveva cominciato con una bicicletta. Un anno fa ci aveva raccontato la sua storia.

Il sindaco, di Mondovì Paolo Adriano: «Ho appreso con profondo dispiacere della scomparsa di Pierangelo Destefanis, nostro concittadino di origine, che aveva portato un po’ della nostra Città in gran parte del mondo, almeno in quella parte del mondo più povera e dimenticata in cui lui operava. L’ho incontrato non più tardi di un anno fa, al suo rientro in Italia con la piccola Margherita: ne ricordo l’entusiasmo e il trasporto nel condividere con noi tante memorie del passato. Ai figli, alle sorelle e a tutti i familiari giungano le mie condoglianze, a nome dell’intera Città».

L'ULTIMA INTERVISTA

Avete presente chi si muove lasciandosi trasportare dal vento? Ecco: non è lui. Pierangelo è uno che il vento se l’è creato da solo, con la sua testa, il suo cuore e i suoi ideali. Per anni, quasi metà della vita, ha viaggiato seguendo la spinta dell’animo e la voglia di stare vicino alle persone. Ha cominciato con una bicicletta, una mountainbike, e con quella si è girato Tibet e Nepal. Non si è più fermato. Ha visto pezzi di mondo sparsi qua e là, dal Vietnam al Messico, fino a mettere radici in Africa centrale. Un’Africa in cui lui ha chiaramente seminato, piantando il suo cuore nella terra e lavorando per le ONG. E, da questa semina, qualcosa è anche germogliato – due “qualcosa”, per la precisione, Margherita (11 anni) e Paola (8), quarta e quinta dei suoi figli (i primi tre sono nati in Italia: Martino, Stefano e Giacomo) –, facendogli passare là lunghi anni. Mai fermo, sempre impegnato. Ma oggi Pierangelo Destefanis è tornato a casa, in Italia, nel Monregalese.

«Mi definivo un “umanitario comunista” – racconta –. Religioso? Ah, no, io sempre detto di no. Però, ecco… per la verità, io ero uno che teneva le mani nei pantaloni, e intanto col dito nascosto nella tasca facevo il segno della croce. E mi capita di farlo ancora adesso. Boh?». Magari non prega il Dio dei cristiani, ma ci vuol poco a capire che Pierangelo una spiritualità la avverte eccome. Ed è anche in grado di trasmetterla: basta sentirlo parlare, per restare ammaliati dal modo in cui narra. Fuori dal didascalico, dallo scolastico, dal politicamente corretto. Dentro le cose, però. «Dopo tanti anni, sono tornato in Italia – inizia –, credo che la mia sia una bella storia da raccontare».

Fermo. Partiamo dall’inizio, allora. Dove e quando è cominciata la tua vita in viaggio?
Sono nato a Cortemilia e da ragazzo ho studiato dai Salesiani di Cuneo. Poi sono
andato a vivere in Val Pesio, mio papà era una guardia forestale. Quando cominciò a soffiare il vento del ‘68 sentii qualcosa ardere dentro, uno spirito rivoluzionario che non andava d’accordo questo l’Occidente “buono”, “normale”, banale.
Come hai cominciato a viaggiare?
Con una bicicletta. La passione per la bici me l’ha trasmessa mio papà, quando avevo 14 anni mi comprarono la mia prima bicicletta e cominciai a macinare chilometri, mi allenavo e facevo le gare, ne vinsi anche un po’. Poi, anni dopo, arrivò la mia prima mountain bike: ed è così che cominciai per davvero, col mio nuovo “mezzo speciale”. Con tre amici, Claudio, Valter e Sandro, decidemmo di vedere il Tibet. Viaggiammo da Katmandu, in Nepal, a Lasha, passando anche al Campo Base Nord dell’Everest. Era il 1987, in ottobre: proprio nei giorni dell’insurrezione di Lasha, quando i militari cinesi uccisero tanti tibetani che chiedevano l’indipendenza. E noi eravamo lì… con un ex militare cinese a farci da guida!
E poi?
Poi ci venne una nuova idea: scalare, in bici e poi a piedi, quattro vulcani a quattro angoli della Terra. Salimmo sull’Etna, sull’Ararat in Turchia, sul Cotopaxi in Equador che è il vulcano attivo più alto del mondo, e sul Nyiragongo, che si trova al confine tra la Repubblica Democratica del Congo, che allora si chiamava Zaire, e il Rwanda. Ed è qui che scoprii l’Africa.
Ti sei trasferito subito in Africa?
No, non in quel momento. Girai ancora, pedalai in Vietnam da sud a nord e in Mexico coast-to-coast. Nel Monregalese organizzai la Trans Alp Adventure. Nel ’93 visitai la Lapponia con mio figlio, con i cani da slitta. Poi, nel 1994, venni a sapere cosa stava succedendo in Rwanda, il genocidio. Io ero stato in Rwanda e ricordavo bene quella terra, dove l’odio fra le etnie Hutu e Tutsi era altissimo. Venni a sapere che il vescovo di Mondovì aveva un fratello missionario in Burundi in una missione che si trovava vicino a un campo che accoglieva profughi ruandesi. Decisi di partire.
Quanta Africa hai visto?
Dopo il Burundi, ho lavorato a progetti umanitari in Tanzania, Senegal, Cameroon, Togo, Benin, Ghana, Guinea Bissau, Mali, Niger, infine il Burkina Faso. Ho portato avanti missioni di vario tipo. In Burundi e Tanzania ero nei campi profughi, in Ghana lavorai a un progetto di microcredito per i missionari, in Niger avevo messo su un progetto per pozzi d’acqua. Nel 2003 fui anche impegnato a Baghdad per portare l’acqua negli Ospedali. Qui lavorai assieme alle “due Simone”, Torretta e Pari, quelle che poi verranno rapite l’anno successivo. In Mali fui a capo di una missione di sicurezza alimentare, nella regione del Kayes. Dopo aver concluso la prima missione in Burundi, fondai la mia Associazione, “Terra Patria”. Quando ho lavorato in Niger, che è il Paese più povero al mondo, portai la squadra di calcio di quei ragazzi a Villanova e la feci giocare nel torneo “Piccole grandi squadre”. Poi decisi di stabilirmi in Burkina Faso.
Che effetto ti fa, oggi, chiamarti “italiano”?
Io non mi ritengo tale. Io sono cittadino del mondo. Per me esiste una sola nazione, unica, ed è la Terra-patria. Ed è così che ho chiamato la mia Associazione, prendendo il nome dal libro di Edgar Morin. Esiste quest’unica nazione, e in quando non lo capiremo… non riusciremo mai a fare il bene della gente.
Ora ti definiresti ancora, come anni fa, “umanitario comunista”?
Umanitario sì, comunista no. Quella definizione non ha più senso, come dice uno dei miei figli: «Papà, siete fuori tempo massimo, i comunisti sono tutti estinti». I miei riferimenti sono quelli però: Guevara, Mao, i rivoluzionari. Ma anche un “rivoluzionario” come padre Alex Zanotelli, uno con le p… di ghisa! Un prete “comunista”. Ma, del resto, per me il primo vero “comunista” è stato Gesù.
Torniamo al segno della croce fatto con le dita in tasca… senti, tu ora pensi di continuare con l’impegno politico?
No. Mi è stato già chiesto, ma non ho tempo. Ho quasi 70 anni, voglio stare con i miei figli.
Perché sei tornato?
Perché sono cambiate tante cose. Oggi, per me, restare in Africa non era più sicuro. Il Burkina Faso è una zona pericolosa e io sono “un bianco”. Là gli europei sono considerati schiavisti e sfruttatori… chissà come mai… temevo per me e per le mie figlie, non mi sentivo al sicuro. Dunque ho deciso di tornare. Mi sento vecchio. Come ti ho detto, ho quasi 70 anni e voglio che la mia vita vada avanti qua, dove sono nato.
È curioso, non credi? Oggi c’è chi se ne va, dicendo che l’Italia di questi tempi non li rappresenta più perché sta diventando una terra di odio e razzismo. E tu invece sei tornato… cosa hai trovato, qua, al tuo ritorno?
Beh, sono felice di aver ritrovato la mia terra. Vorrei provare a fare qualcosa nel Parco naturale. Ma ho anche trovato una burocrazia esagerata, sfiancante, senza senso. Qui ci sono montagne di carte da compilare, anche solo per poter far entrare con me la mia figlia di 11 anni, cose che mi fanno urlare «ma che c…!»… che poi è l’intercalare che ho usato per intitolare un piccolo libro che ho scritto nel 2008.
E invece cosa ti manca dell’Africa?
Il fascino, gli amici che avevo laggiù… e mi manca il coraggio che avevo in quegli anni, e che ora non ho più.

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