“Voglio vedere mio figlio” e devasta un bar a Mondovì: il giudice lo condanna

Nel luglio scorso aveva danneggiato un locale: «Pensava che sapessimo qualcosa sulla sua compagna» ha spiegato la proprietaria

Tribunale di Cuneo

Sarebbe stata l’errata convinzione che i titolari del bar “sapessero qualcosa” riguardo alla sua compagna e a suo figlio a indurre un pregiudicato monregalese, G.T., a sfasciare gli arredi esterni ed interni del locale in pieno centro cittadino. Per i fatti risalenti allo scorso luglio l’imputato è andato a giudizio, con l’accusa di danneggiamento.

Il giudice Lorenzo Labate ha ascoltato i due proprietari dell’esercizio, un uomo e una donna. “Ero a casa e ho sentito gridare”, ha spiegato lui, dicendo di aver visto G.T. mentre alzava le fioriere del Comune e le ribaltava, prima di incominciare a fare altrettanto con sedie e tavolini del dehor. “Gridava ‘voglio vedere mio figlio’”. Analoga ricostruzione è stata fornita dalla titolare, in quel momento allontanatasi per una commissione: “Quando sono tornata, intorno alle ore 17, stava scaraventando in strada gli arredi. Sembrava alticcio e continuava a urlare. La compagna – da quanto si era capito – era andata via col figlio: G.T. pensava che noi sapessimo qualcosa, perché lei era una frequentatrice abituale del bar”.

Non pago di aver spaccato tavoli e sedie all’esterno, l’uomo era entrato nel locale e aveva rotto la vetrina refrigerante dei panini, lo spillatore delle birre e varie stoviglie. Un danno che il proprietario ha quantificato tra i 1.200 e i 1.300 euro, pur rifiutando ogni risarcimento: “Il giorno dopo è venuto per scusarsi e offrire denaro, io l’ho invitato ad andarsene e gli ho chiesto di non tornare più. Oltre all’incasso di quella sera abbiamo perso anche quello del giorno dopo, a causa dei danni subiti”.

Nonostante l’assenza di querela, nei confronti del pregiudicato si è proceduto d’ufficio perché sussisteva l’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede dei beni. Una circostanza che il pubblico ministero Alessandro Borgotallo ha ribadito anche in sede di discussione: “Il dehor era sulla pubblica via e i gestori non potevano sorvegliare quei beni: l’unico barista in quel momento stava servendo i clienti in sala”. Nei confronti dell’imputato, definito “un soggetto molto conosciuto, anche in queste aule, per le continue intemperanze”, il p.m. aveva chiesto la condanna a dieci mesi di reclusione. Il difensore aveva invece domandato di ritenere insussistente l’aggravante e assolvere di conseguenza. Nei confronti di G.T. la pena finale è stata quantificata dal giudice in cinque mesi e dieci giorni di carcere.

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