Il peso del business delle agromafie

Le imprese agricole italiane non sono più disposte a subire fenomeni criminali, frodi, furti.

Le imprese agricole italiane non sono più disposte a subire fenomeni criminali, frodi alimentari e nei ristoranti, furti di attrezzature e di mandrie, ambiente devastato dalle ecomafie, abusi della malavita organizzata, caporalato, falsificazioni di prodotti nazionali che in tutti i continenti vengono spacciati per “italiani” quando non lo sono affatto.

È quanto emerge dal 4° Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia illustrato a Roma alla presenza dei ministri delle Politiche agricole, Maurizio Martina, e della Giustizia, Andrea Orlando, della presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, e di altre autorità. Come hanno sottolineato sia il presidente di Coldiretti, Roberto Moncalvo, che quello di Eurispes Gian Maria Fara, che ha collaborato alla stesura del rapporto, il business delle agromafie supera un valore stimato di 16 miliardi, frutto di reati ai danni degli agricoltori quali usura, racket ed estorsioni, abusivismo edilizio, danneggiamenti e minacce alle piantagioni, costrizione a vendere determinate marche e non altre. Dal punto di vista giudiziario, ha sottolineato l’ex-magistrato Gian Carlo Caselli, che presiede il Comitato scientifico dell’Osservatorio sulla criminalità in agricoltura e sul sistema agroalimentare, l’apparato di leggi e controlli disponibili appare di buon livello, ma il tasso di criminalità nel settore rimane molto alto e, quindi, lo Stato è chiamato a tenere la guardia alta su più fronti.

L’indice di organizzazione criminale in agricoltura. Quando si parla di criminalità che agisce nel settore agricolo è chiaro che si pensa alle regioni e ai territori dove maggiore è la concentrazione d’imprese agricole: in particolare, il Mezzogiorno e il Centro-Sud Italia in genere, pur registrando un notevole numero di aziende anche nel nord del Paese, specie nella pianura Padana. Ebbene, dal rapporto emerge una mappatura della criminalità agricola impressionante. Nel testo si parla di “intensità dell’associazionismo criminale elevata nel Mezzogiorno”. Emerge anche nel Centro Italia un “grado di penetrazione forte e stabile in Abruzzo e Umbria, in alcune zone delle Marche, nel Grossetano e nel Lazio”. Fenomeni minori per intensità e presenza si registrano nelle regioni del Centro-Nord. Eurispes e Coldiretti hanno stilato una sorta di graduatoria dei livelli criminali in agricoltura e i risultati sono questi: l’indice di organizzazione criminale (Ioc) è 100 – il più grave – a Ragusa. Seguono Reggio Calabria (99,4), Napoli (78,9), Pescara (71,4), Caltanissetta (69,4), Caserta (68,4), Foggia (67,4) e una ventina di province del Centro-Sud Italia compresa la Sardegna con livelli attorno a 50-40. All’estremo opposto, di scarsa presenza di organizzazioni criminali nelle agromafie, ci sono le Province di Lecco (zero rilevazioni), Monza (0,1), Treviso (0,5), Trento (0,6), Belluno (0,9), Bolzano (1,5) e così salendo. Tra le province della pianura Padana, per fare un esempio, Reggio Emilia ha uno “Ioc” di 10,4, Verona 11,5, Bologna 15,2, Padova 11…
Le contromisure all’“italian sounding”.

Il problema delle falsificazioni alimentari è molto sentito perché trasversale ai vari comparti dell’attività agricola e di trasformazione alimentare. Mozzarelle campane, parmigiano reggiano, grana padano, gorgonzola, provolone, pecorino romano, e poi i prosciutti Parma e San Daniele, o il pomodoro San Marzano o i tanti vini di alta qualità di ogni regione italiana: sono alcuni dei prodotti del nostro Paese che vengono copiati, falsificati, venduti sui mercati internazionali da produttori senza scrupoli che spacciano per “Made in Italy” quanto in realtà è pura imitazione se non criminale manipolazione. Questo fenomeno, ormai abbastanza conosciuto come “italian sounding” (cioè qualcosa che “suona” come italiano pur non essendolo), ha un peso economico molto alto: da stime dell’Eurispes si tratterebbe di circa 60 miliardi di fatturato sottratto ai produttori nazionali.

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