UN ANNO FA – Dal primo caso di Coronavirus in Piemonte al lockdown: cronaca di un anno di emergenza

Un anno fa il primo caso di Coronavirus in Piemonte. Guardando indietro, ecco come la regione visse l'arrivo dell'emergenza che ha stravolto le vite di tutti

Lo chiamavamo "il coronavirus". Nessuno aveva ancora imparato la sigla "Covid-19", men che meno "Sars-Cov2". Era il 22 febbraio 2020, esattamente un anno fa. In un clima che sapeva di straordinario ma anche un po' di surreale, nella sala stampa di Torino con l'attenzione di tutti i media, per la prima volta la task-force della Regione Piemonte guidata dal'assessore Icardi, affermava: «Sì, abbiamo riscontrato un caso di coronavirus in Piemonte». Un anno fa.

Sembra un millennio, sono passati 12 mesi. Per qualcuno era semplicemente "il virus cinese". Mai ci saremmo sognati che sarebbe durata un anno. Ripercorriamo i due mesi di quella che oggi chiamiamo "la fase 1".

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Da alcuni giorni, in Piemonte, si ricorrevano le voci e le domande: ci sono casi? Ci sono contagi? Ci sono ricoveri? C'erano avvisaglie dalla Lombardia, da almeno una settimana. Lì i numeri stavano cominciando ad accavallarsi. Si era capito che "il virus cinese"... non era propriamente solo "cinese". In poco tempo i casi divennero tre, poi una decina.

Arrivò così la prima ordinanza regionale, che fermava Scuole ed eventi pubblici. E nei medesimi giorni  vennero sospese anche le funzioni religiose.

Fa un certo effetto vedere, oggi, le prime pagine del nostro settimanale del 26 febbraio, 4 e 11 marzo 2020: la scansione degli eventi che portò dai primi casi e dalle ordinanze-spot al primo, quasi iconico, DPCM del 9 marzo 2020. Primo, come sappiamo, di una lunga serie.

Gli ospedali scattarono in stato di emergenza. Fuori dall'ospedale di Mondovì comparve la prima tenda per i controlli:

Tutti imparammo a fare i conti con parole nuove, che fino al giorno prima erano  appannaggio degli addetti ai lavori: lockdown, mascherina chirurgica o "FFP2", tampone molecolare, test sierologico, smart working.

Imparammo cosa voleva dire non vedere i propri affetti per settimane e settimane, imparammo a considerare normale usare mascherine e igienizzanti, imparammo a fare videochiamate facendo finta che fossero un buon surrogato di una chiacchierata faccia a faccia. Accontentandoci. E dicendoci, l'uno con l'altro, anche per darci un po' di coraggio: tanto dura un mese, due al massimo, poi tornerà tutto come prima. Non andò così.

Imparammo anche a fare i conti con i devastanti effetti economici del lockdown, a chiedere (e magari non ottenere) i ristori o la cassa integrazione, a lavorare a casa (quando è andata bene) o a portare la spesa in casa altrui. A spiegare ai nostri figli che la scuola non sarebbe stata riaperta. E che non avremmo rivisto tanto presto le attività all'aria aperta, le feste con gli amici, lo sport. Fummo costretti a fare i conti con la chiusura, l'ansia, la depressione e la crisi. Imparammo a "decifrare" norme mai immaginate, a districarci tra autocertificazioni, ordinanze, DPCM.

Soprattutto, imparammo a fare i conti con una malattia che non era - e non è mai stata (nonostante le allucinanti posizioni negazioniste) - una banale influenza. E infine, fummo costretti a fare i conti con l'emergenza vera. Coi malati, coi ricoveri gravi, e con i decessi. A oggi sono oltre 90 mila in Italia, oltre 9 mila in Piemonte. La sola città di Mondovì conta più di 80 decessi registrati come Covid. L'allarme dei sanitari raggiunse toni nazionali.

Risale al 19 marzo il primo decesso Covid-19 all'Ospedale di Mondovì - LEGGI QUI, anche se si trattava di una persona che proveniva dalla Lombardia. Ed è invece del 25 marzo il primo caso di decesso Covid di un monregalese (di Prunetto) - LEGGI QUI. Con l'esplosione dei casi nelle case di riposo, a cominciare da Garessio, con i casi esplosivi della "don Rossi" di Villanova e "Sacra Famiglia" di Mondovì.

Cominciarono le raccolte fondi, la solidarietà, le collette per comprare mascherine e DPI alle strutture sanitarie o assistenziali. Arrivarono le migliaia di arcobaleni colorati dei bambini che lanciavano uno slogan di speranza - "Andrà tutto bene!" - rivelatosi, purtroppo, molto lontano dalla verità.

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