Franco Luigi Motta, uno degli ultimi partigiani di Mondovì, si è spento oggi, mercoledì 5 giugno, alla Casa del clero di Vicoforte. Classe 1924, aveva 94 anni: era ancora intervenuto alle ultime celebrazioni per il 25 aprile. Testimone dei drammatici avvenimenti accaduti nell’inverno del 1944 ai componenti del Distaccamento della Tura del comandante Beppe Milano, nel 2016 gli fu assegnata la Medaglia della Resistenza.
Dipendente dell’ENEL, è stato Presidente dell’Istituto Sacra Famiglia e protagonista della costruzione della nuova sede di via Ortigara. Memoria storica di Carassone, è stata una delle anime del rione di Mondovì per tanti anni. Era ancora presidente dell’Associazione “Ignazio Vian” ed è stato al vertice del Museo della Resistenza di Chiusa Pesio.
Lascia i figli don Egidio (sacerdote della diocesi di Mondovì e parroco a Breo), Andrea, Daniela e Anna Maria e il fratello Elvio.
Il rosario verrà celebrato mercoledì sera alle 8 alla casa del Clero e giovedì alle 20,30 a Carassone. I funerali si terranno venerdì 7 giugno alle 15 nella parrocchiale di Carassone con partenza dalla Casa del clero alle 14,30.
Il sindaco di Mondovì, Paolo Adriano: “Ho appreso la triste notizia della morte del Sig. Franco Motta e desidero esprimere alla famiglia, ai suoi cari ed all'Ass. "I. Vian" le più sentite condoglianze mie, dell'Amministrazione Comunale e della città tutta.
Mondovì, medaglia di bronzo al valor militare, ricorda con affetto la figura del Sig. Motta, esempio fulgido della eroica lotta di Resistenza”.
«Sono salito in montagna nel giugno 1944».
I suoi ricordi della Resistenza
«Sono uno degli ultimi partigiani del Distaccamento della Tura. Sono salito in montagna nel giugno 1944 con i ribelli alla chiamata alle armi nella Repubblica di Salò alleata dei nazisti in una guerra sbagliata e disastrosa. “La vita al pian per noi era finita, ahi quanto a dir qual era, è cosa dura”, cantavamo per darci coraggio. Con i giovani del Circolo cattolico di Carassone e con quelli del Ferrini avevo imparato a prendere la distanze dalla follia e dalla propaganda del regime. Sulla Tura mi trovai con altri amici monregalesi, operai, studenti, contadini: chi formatosi all’ombra del campanile, chi in ambienti diversi. Non potevamo avere subito le idee chiare. La lunga disinformazione ci aveva condizionato; ma aprimmo gli occhi a contatto con la dura realtà, discutendo fra di noi, ascoltando le esperienze di chi era reduce da uno dei fronti di guerra e non voleva affatto tornarci, tanto meno dalla parte sbagliata con Graziani e i repubblichini di Salò.
Il nostro capo naturale fu fin da subito il tenente Beppe Milano, di Farigliano, tornato dalla Russia con un bagaglio di esperienze che gli dava autorevolezza e determinazione, e con una maturità umana affrettata dalle difficoltà a cui era sopravvissuto.
Un rastrellamento particolarmente drammatico fu quello del dicembre ’44, perché il nostro comandante Beppe Milano era gravemente malato e avvampava di febbre. Una piccola grotta, non distante dal rifugio ma difficile da individuare, ci ospitò in una ventina. Giorni e notti d’angoscia; ma ci sosteneva la presenza di don Beppe Bruno, il nostro cappellano che non ci abbandonava, che si esponeva ad ogni rischio, anche se non godeva di buona salute neppure lui.
Una stagione che meritava di essere vissuta con quello slancio, con quella fiducia, con quelle speranze che noi partigiani sopravvissuti auguriamo alle generazioni odierne di conoscere e rispettare per coltivarle a loro volta con modalità nuove, per il bene di tutti, della libertà, dell’Italia democratica, unita e repubblicana».