“Bright” (2017) di David Ayer, recentemente uscito su Netflix, è una nuova collaborazione del regista con Will Smith dopo quella iniziata con “Suicide Squad”. Si tratta di un presente alternativo dove gli umani convivono da sempre con orchi, fatine, elfi e con la presenza – sia pure non quotidiana – della magia. Un lettore italiano di fumetti non può non pensare a Jonathan Steele dello sceneggiatore Federico Memola, pubblicato dal 1999 prima con Bonelli, poi con Star Comics.
Ma il mondo di Jonathan Steele è più complesso, mentre il film di Ayer pare semplicemente riprendere il meccanismo del buddy cop movie e adattarlo a un contesto fantasy in modo abbastanza automatico. Un’operazione simile ad altre già tentate in passato: molti citano, ad esempio, il modello di “Alien Nation” (1988), dove la coppia è formata da umano ed alieno.
Si tratta del resto di un archetipo letterario, filmico e ancor più televisivo di lunga data, che si basa sul meccanismo tutto sommato realistico della coppia di agenti di polizia che si trovano a dover condividere l’attività di pattuglia, dovendo così affidare la propria vita al collega. Il modello è infatti piuttosto antico, e viene di solito fatto risalire a Dragnet (1949), il primo telefilm poliziesco, che ha al suo centro una coppia di agenti (pur col distretto sullo sfondo).
Curiosamente, l’adattamento alla fantascienza letteraria è di poco successivo, e avviene con “Abissi d’acciaio” (1953) di Isaac Asimov, dove l’agente terrestre Elijah Baley collabora con il robot Daneel Olivaw. Lo schema funziona bene: se i due detective, per contrastare, devono essere uno razionale e deduttivo, uno d’azione ed impulsivo, questa dicotomia si adegua perfettamente al rapporto robot / uomo (specie nell’idea asimoviana, dove il robot non è mai ribelle).
L’opera di Asimov, prima di una trilogia, ispirò in parte il molto libero adattamento “Io, robot” (2004) di Alex Proyas, dove la parte del protagonista umano spetta appunto a Will Smith. L’opera rifiuta l’adattamento fedele, magari con necessari aggiornamenti, e fa un mix dei temi asimoviani più o meno coerente, perdendo però molto dello spirito originario. Resta però, tutto sommato, il rimando alla dualità tra poliziotto umano e collaboratore robotico; in “Bright”, invece, se l’Orco è coerentemente un poliziotto rozzo e non troppo sveglio, Will Smith non è tagliato per il ruolo della controparte ligia alle regole ragionevole, e il contrasto è così meno sviluppato. Il film resta godibile, nel complesso: ma siamo lontani dalle raffinatezze dei gialli fantascientifici asimoviani.
Tra l’altro, se proprio vogliamo, il buon dottore aveva anche anticipato questo meccanismo proprio in alcuni racconti di “Io, robot”, come Runaround (1942) e successivi, dove a indagare su casi di robot malfunzionanti sono una coppia di tecnici riparatori con casi dalla struttura di fantascienza giallistica, prima ancora del police procedural televisivo (ma non, ovviamente, di quello letterario, che proprio negli anni a ridosso della seconda guerra mondiale aveva avuto un boom in USA).
Probabilmente si potrebbero fare altri casi, ma ci sembra di aver ricostruito le basi di questo tipo di mash up di successo. E per quanto alla fine "Bright" svolga il suo lavoro di intrattenimento, ne aspettiamo una versione più noir e più complessa. Magari ad opera di una prossima stagione di "Black Mirror": del resto, non erano loro a dire che "The future is bright"?