PJ Harvey, il rock si declina al femminile

New releases: alternativa a Nick Cave

Se negli anni ‘80 il mondo femminile era costellato di teenager alla ricerca della Isla Bonita o “just to have fun”, negli anni ‘90 il palcoscenico venne occupato da una nuova generazione di cantautrici, in cui lo spirito ribelle, anticonformista e femminista, venne incanalato attraverso il rock post Nirvana. Memori degli insegnamenti e della tradizione di Patty Smith, tra una Tori Amos e una Neneh Cherry, a svettare è stata una piccola inglesina, minuta, dal fisico sgraziato, magrolina e non particolarmente avvenente, ma con una voglia di emergere, due corde vocali e una quantità di cose da dire che l’hanno resa una delle artiste femminili più amate e con una carica seduttiva inimitabile. E miss Polly Jane, meglio conosciuta come PJ Harvey, ancora oggi trasuda rock.
Ancora oggi riascoltare un vecchio disco della cantautrice di Yeovil è un esperienza emozionale fuori dalle convenzioni: con la complicità di Peaky Blinders, serie cult trasmessa negli ultimi mesi da Netflix, che ha attinto a piene mani per la stupenda colonna sonora (guarda caso servendosi di lei e di Nick Cave) a dischi come Is This Desire e To Bring You My Love, impressiona ancora come fosse il primo ascolto il pathos stilistico di una donna spiazzante che a inizio ‘90, poco più che ventenne (classe 1969), trattava temi scottanti, tutt’altro che banali: i suoi non erano amori facili e confettati, al contrario mai idealizzati, punti di vista critici sulla condizione delle donne o in cui l’io narrante era la voce di una prostituta, piuttosto che una donna violentata; si aggiungeva poi una potenza musicale (rock sporco, lo-fi) che, ancora oggi, è difficile da riprodurre.
I suoni di PJ col tempo sono andati evolvendosi, il lungo sodalizio con John Parish ha portato talvolta ad arrangiamenti più “pop” (Stories From The City, Stories From The Sea), in altri casi a ritorni di fiamma (Uh Huh Her nel 2004); oggi le chitarre sono più pulite, si declina l’essenziale, in chiave post punk, più definiti e decisamente più grevi i colpi di batteria, ai tormenti emotivi e affettivi di una ventenne si sono sostituite tematiche più “politiche”, come le disuguaglianze sociali, la necessità di scuotere la società in cui si vive (Let England Shake) e il futuro dell’umanità, elemento forte nell’ultimo disco (uscito da qualche settimana) The Hope Six Demolition Project. Nonostante gli anni e la mancanza di immediatezza, PJ Harvey è spettatrice privilegiata del mondo e con sensibilità ci aiuta a riflettere su chi siamo e dove andiamo, compresa l’ultima uscita “post Brexit” a cui ha risposto (durante il Down the Rabbit Hole Festival) con il passo di No Man Is An Island (un saggio di Thomas Merton, che riprende un passo del Devotions Upon Emergent Occasions del poeta John Donne): «Quello che faccio viene dunque fatto per gli altri, con loro e da loro: quello che essi fanno è fatto in me, da me e per me. Ma ad ognuno di noi rimane la responsabilità della parte che egli ha nella vita dell’intero corpo».

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