Velvet Underground & Nico: cinquant’anni e non sentirli

Nel 1967 usciva l’opera prima della band capitanata da Lou Reed

Il 1967 è stato un anno che sarebbe riduttivo definire determinante per i successivi sviluppi della musica moderna. I Beatles, già largamente affermati, a giugno pubblicavano quella pietra miliare di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Due mesi dopo, cinque ragazzi di Londra sulla ventina uscivano dal circuito underground della capitale con il loro primo album, The Piper at the Gates of Dawn: il seguito lo conosciamo tutti.
Dall’altra parte dell’oceano, nel cuore della camaleontica New York, la Factory di un certo Andy Wharol dava forma a quello che solo qualche anno più tardi sarebbe stato riconosciuto come uno dei dischi rock più importanti e influenti di sempre. Cinquant’anni (e qualche settimana) fa i Velvet Underground (guidati dallo sconfinato genio di Lou Reed e John Cale), con la partecipazione della modella tedesca Nico, pubblicavano la loro magistrale opera prima. Un album imprescindibile per chiunque si definisca appassionato di musica, rivoluzionario a partire dalla copertina: la banana disegnata da Andy Wharol, entrata di prepotenza nell’immaginario collettivo, accompagnata soltanto dalla firma dell’artista e da un invito a “sbucciare lentamente e guardare” (peel slowly and see); rimuovendo un adesivo si rivelava infatti una banana rosa, allusione neanche troppo velata al membro maschile.
Non meno espliciti i contenuti: dalla dipendenza da eroina, ritratta ora con un sottile gusto tragicomico (I’m Waiting for the Man), ora con il più crudo realismo (l’inno all’autodistruzione Heroin), passando per la perversione sessuale (Venus in Furs), la morte comportata dalla droga (Run Run Run) e lo straordinario campionario umano che popolava la Factory di Wharol (All Tomorrow’s Parties); non meno degne di nota le più dolci Sunday Morning, in cui comunque serpeggia il tema della paranoia, e I’ll Be Your Mirror, classica ballata amorosa, ma che racconta un amore atipico, a tratti presuntuoso.
Stilisticamente si era (si è) di fronte a qualcosa di atemporale, che prendeva a piene mani dal passato (il piano boogie di I’m Waiting for the Man, il rock n’ roll di Run Run Run), ma proiettandosi nel futuro (il quasi-dream-pop di Sunday Morning, i feedback in coda a European Son), e attraversando il proto-punk e la psichedelia che stavano esplodendo nel periodo.
Ancora oggi, cinquant’anni dopo, quando si ascolta The Velvet Underground & Nico, la netta sensazione è quella di ascoltare un imperituro capolavoro.

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