Negli ultimi anni il jazz italiano si è lanciato in una serie di innumerevoli riletture di materiale musicale di origine più disparata: qualche anno fa il gruppo l’Espresso aveva addirittura pubblicato una collana di concerti registrati alla “Casa del Jazz” di Roma, con i migliori nomi del panorama, tutti legati da questo filo conduttore. L’esempio più popolare è stato forse Milestones, che ha visto Gino Paoli accompagnato da una formazione all-stars di jazzisti, ma aveva goduto di una certa popolarità anche il tributo a De Andrè della band capitanata da Stefano Di Battista. L’attitudine allo sperimentalismo è da sempre connaturata al jazz, che non ha mai avuto remore nello spingersi nei territori più impervi, e il processo della contaminazione è tipico di questi tempi, in cui un archivio sonoro sterminato è a disposizione di tutti e gli accostamenti più curiosi sono possibili con un clic. Forse però c’è anche la voglia di un incontro su un terreno comune con il vasto pubblico, quegli ascoltatori estranei al mondo dell’improvvisazione, con le sue regole e le sue convenzioni.
"Verdi's mood": un omaggio al mondo dell'opera
Il progetto di Cinzia Tedesco, che sarà al teatro “Baretti” venerdì sera, si muove su questa falsariga e sceglie di avventurarsi, apparentemente, nell’habitat più improbabile per un jazzista: il mondo operistico, dove tutto è rigorosamente scritto, dove la vocalità è vincolata da una precisa e rigorosissima grammatica, dove tutto è subordinato alla narrazione di una storia, all’attenzione a un testo più che all’espressione musicale. “Verdi’s mood” è il primo capitolo di un progetto proseguito con un nuovo disco, stavolta dedicato al repertorio pucciniano. È un genuino omaggio a Verdi, alle sue arie più celebri, ma anche un’occasione per rivedere un materiale musicale talmente radicato nella sua forma abituale da apparire sorprendentemente nuovo, in questa nuova veste. Sul palco, con la vocalist ci saranno il batterista Pietro Iodice, il contrabbassista Luca Pirozzi, la violoncellista Giovanna Famulari e il pianista Stefano Sabatini.
«Caliamo Verdi in nuove atmosfere»
Dopo un disco su Dylan, le riletture in jazz di Verdi e Puccini: come nasce l’idea di un itinerario cosi curioso?
«Sono una temeraria: io canto da quando avevo 8 anni, i miei punti di riferimento sono artisti come Ella Fitzgerald, Stewie Wonder, Aretha Franklin, la mia matrice è genuinamente jazz ma mi piace sperimentare sempre nuove sensazioni in musica. Cerco di segnare in qualche modo un percorso personale e prendere una mia direzione. In questo senso il progetto di Verdi’s Mood e Mister Puccini si inseriscono su una strada già battuta da altri grandi jazzisti, alle prese con la musica classica. Finora però si erano fatti tributi per lo più strumentali, come quello di Paolo Fresu o Antonello Salis e Furio Di Castri. L’elemento distintivo di novità di questo progetto, che ha convinto anche la Sony, sta nel lavoro sulla voce: abbiamo riletto quel materiale con una vocalità diversa e calato un repertorio che è sempre stato popolare in nuove atmosfere. Ho lavorato per creare un nuovo mondo musicale, in cui le arie dell’opera potessero essere fruite in modo diverso, rendendo però loro piena giustizia. Per far questo, mi sono circondata di musicisti eccellenti. È un progetto corale questo, chiaramente, nessuno può far nulla da solo».
Il jazz italiano si sta avventurando sempre più spesso in queste riletture di materiali musicali vari, dal pop al rock alla classica. Come mai? Contaminazione? Voglia di sperimentare? Ricerca di un terreno comune con il grande pubblico? È voglia di aprirsi?
«Da una parte c’è sicuramente la voglia di sperimentare, dall’altra essendo anche mamma c’è la voglia di portare ai ragazzi e al pubblico giovane la grande musica, per salvarli dalla mediocrità dilagante su tutti i media. Mio figlio conosce le opere che canto ed ha avuto la curiosità di andare a sentire la Tosca. Questa per me è la soddisfazione più grande».
Hai lavorato su Verdi e su Puccini, due autori molto diversi tra loro. Cosa ti interessava fare emergere da questi materiali musicali?
«Come dici tu, sono molto diversi tra di loro, pongono sfide diverse. Con Verdi è stato molto difficile, tant’è che ho faticato persino a coinvolgere il pianista, Sabatini, a unirsi al progetto. È un episodio divertente, che racconto anche in concerto. Togliere un'aria di Verdi dal suo contesto e farla funzionare, conservandole comunque una matrice popolare, è un'operazione complessa. È stato difficilissimo, ad esempio, reinterpretare il “Va’ Pensiero”. È stato un lavoro lungo, non convinceva finché non abbiamo provato a suonarla come fosse una canzone di James Taylor. Ci ha conquistato. Molto più semplice l’approccio con “La donna è mobile”. Mi ha suggerito subito un’allure un po’ latina, divertente. Con Puccini è stato più semplice e più difficile: più semplice perché è sicuramente più vicino alla modernità come autore, più complicato perché di sue reinterpretazioni ce ne sono tantissime, e non è facile aprire una nuova strada. La chiave del progetto è l’originalità, abbiamo cercato di non essere mai banali. Il “Valzer di Musetta” è diventato un 5/4 alla Take Five, stile Al Jarreau. Mi sarebbe piaciuto fare anche “Nessun Dorma”, ma ci sono delle opere ancora intoccabili, per questioni di diritti. Comunque abbiamo operato una selezione a partire dalle arie più note, anche per venire incontro al pubblico. Una delle soddisfazioni maggiori è stata quella di conquistare qualche melomane, venuto a sentirci arricciando il naso e uscito dalla sala con l’album. Uno di questi melomani scettici era mio padre».
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