Parco Safari, nessun illecito sul caso delle sepolture di alcuni animali

L’indagine era partita dal ritrovamento della carcassa di un dromedario e di altri animali, in una fossa all’interno della struttura. Tutti gli imputati sono stati assolti

Nasceva da un sopralluogo effettuato dai Carabinieri Forestali presso il Parco Safari di Murazzano il procedimento che ha coinvolto il direttore, T.F., il veterinario C.A. e il responsabile amministrativo della Safari srl, Y.Z., ovvero la società che gestisce il giardino zoologico. Le accuse erano di falsità in registri e notificazioni, falso ideologico e violazione del decreto legislativo 231/2001 sui reati ambientali. Il Tribunale non ha riscontrato però illeciti penali: tutti gli imputati sono stati assolti dal giudice Giovanni Mocci, con la formula “il fatto non sussiste”.

La Procura, rappresentata dal pm Gianluigi Datta, aveva chiesto per il direttore la condanna a otto mesi di reclusione, per il veterinario a cinque mesi e per il responsabile della società una sanzione pecuniaria pari a 10mila euro. Dai controlli effettuati nell’ottobre 2020 era emerso che alcune carcasse di animali erano state smaltite in una fossa, all’interno dei confini del parco. A una profondità di circa un metro e mezzo erano stati ritrovati gli esemplari deceduti: un dromedario, un canguro wallaby, un lama e uno struzzo. Il direttore aveva subito precisato che si sarebbe dovuto trattare di una sepoltura provvisoria, in attesa di poter smaltire le carcasse secondo le procedure imposte dalla legge.

A destare sospetti però aveva contribuito il ritrovamento di documenti dai quali risultava che il dromedario morto, identificato tramite il microchip, doveva essere ceduto e trasportato in un altro parco in provincia di Sondrio ai primi di agosto. A circa un mese di distanza dal sopralluogo, al Nucleo Investigativo dei Forestali di Cuneo era giunta la chiamata del veterinario dell’Asl che riferiva di aver ricevuto per mail i certificati di morte degli animali rinvenuti. Questi certificati, tutti datati ad agosto, non erano stati ritrovati al momento del sopralluogo. L’Arma aveva quindi eseguito perquisizioni presso lo studio e l’abitazione del veterinario di fiducia del Parco Safari, rinvenendo altra documentazione.

«Si tratta di un episodio occasionale, che non rispondeva a una logica di sistematica violazione delle norme», ha spiegato l’avvocato Stefano Barzelloni, legale della Safari srl: «Eravamo a fine agosto dopo la fase Covid e vi erano state altre circostanze molto sfortunate, come la rottura dei frigoriferi. In maniera autonoma il direttore ha deciso di interrare le carcasse in questa buca. Il dato finale è che gli animali sono poi stati smaltiti regolarmente».

Non c’erano, sostiene la difesa, alcun pericolo «viste le caratteristiche del sito, come l’eventuale vicinanza di fonti d’acqua o luoghi frequentati». Per la difesa del direttore del Parco Safari, rappresentata dall’avvocato Barbara Paoletti, è dirimente il fatto che non vi fosse alcun obbligo di registrazione: «I quattro animali non sono ricompresi negli allegati CITES» ovvero la normativa, più stringente, a tutela delle specie rare. Lo stesso T.F., imputato in un procedimento parallelo di fronte a un altro giudice, era già stato scagionato con sentenza di non luogo a procedere. Per gli avvocati Gianmarco Lorenzi e Andrea Tatafiore, difensori del veterinario, le indagini non avevano permesso di appurare se C.A. avesse in effetti certificato un falso: «Non è stato appurato se si fosse fatto sostituire da un veterinario delegato, come la legge consente di fare. In ogni caso il documento non ha i requisiti essenziali di un certificato, mancando la sottoscrizione olografa».

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