Il suono dei Giardini di Mirò: una rapsodia di fuoco

i Giardini di Mirò formazione reggiana conosciuta per lo più tra gli amanti del post-rock si sono esibiti in una performance di sonorizzazione di due cortometraggi d’autore del film muto: Rapsodia Satanica di Nina Oxilia (1917) e Fuoco di Nino Pastrone (1915).

Mercoledì 24 settembre al Cinema Massimo di Torino i Giardini di Mirò, formazione reggiana attiva dal 1998, conosciuta per lo più nell’ambito del circuito di amanti del genere post-rock (da ascoltare i Mogwai) si sono esibiti in una performance di sonorizzazione di due cortometraggi d’autore del film muto: Rapsodia Satanica di Nina Oxilia (1917) e Fuoco di Nino Pastrone (1915).
L’evento è stato introdotto da un breve intervento del direttore del Cinema Massimo, luogo che negli anni ha proposto numerosi spettacoli di questo genere, dove vecchie pellicole si sono fuse in modo magico con i tappeti sonori prodotti da vari gruppi italiani, che si sono cimentati in questa diversa forma artistica (gli Offlaga Disco Pax sul film "I Mille", del 1912).

I Giardini si presentano sul palco in 5, con due chitarre, una batteria, un violinista poli-strumentista e un tastierista. Salgono sul palco in perfetto silenzio, in piena luce; salutano il pubblico con poche parole di ringraziamento. Le luci si spengono e appaiono le prime immagini di Rapsodia Satanica, breve storia di un’anziana donna che vende l’anima a un demone, ottenendo di tornare bella e giovane ma perdendo la capacità di amare. Nell'esecuzione si passa da muri di chitarre, intrecciate, pesantemente distorte, a parti quasi silenti disturbate solo da pochi suoni rarefatti. Emozionante la scena in cui la donna vende l’anima al demone, musicata con una rapsodia (questa volta musicale) che somma chitarre a chitarre e tastiere, aumentando di intensità fino a costruire un suono potentissimo, drammatico. Al termine della prima proiezione, dopo un breve intervallo, GdM riprendono con Fuoco, corto diviso in tre momenti: Favilla, Vampa e Cenere sono le fasi di una storia di infatuazione che coinvolge un pittore romantico e una scaltra poetessa che lo seduce e lo conduce alla follia dopo averlo “rubato” alla madre. Curiosa nell'economia dello spettacolo di immagini, la visione che viene data della donna, in entrambe le proiezioni diabolica, seduttiva e manipolatrice.

La band reggiana si conferma attenta costruttrice di sonorità eteree, intense e a tratti violente: una varietà che ben rappresenta il caleidoscopio emotivo, slegato dal linguaggio, provocato dalle storie narrate dai due film. Pesca dal mondo emotivo, narrandolo con il linguaggio potente e in qualche modo assoluto dell'intenzione sonora, della dinamica e dal timbro dei suoni, liberandosi dal veicolo strettamente linguistico. I 5 musicisti si servono durante il concerto di strumenti “esotici”, come percussioni, campane tubolari che nostalgicamente evocano il famoso Dong pinkfloydiano, mandolino e tromba. Da notare le armonie e gli intrecci di chitarre, tipiche e peculiari, che rendono il suono dei Giardini di Mirò diverso da ogni altro.

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