Gigi Maccalli al Santuario di Vicoforte. L’incontro dalle Sorelle Clarisse e con il vescovo Egidio

Liberato due mesi fa, in Mali. Intervista: «Cosa è stato decisivo nei 752 giorni di sequestro nel deserto, ridotto all’essenziale», «A tu per tu col Papa: sono rimasto spiazzato dai suoi gesti e dalle sue parole!». Mons Miragoli è stato il suo insegnante di teologia a Crema

«Nel giorno esatto in cui anni fa, dopo che ero riuscito a far giungere a Roma, all’Ospedale “Bambin Gesù”, Myriam, ragazzina da un villaggio del Niger, per un’operazione difficile al cuore, la stessa tredicenne è morta prima dell’intervento, sono qui con voi condividere l’Eucaristia portando anche questa sofferenza nel cuore del Signore, come tante altre sofferenze per il Covid in mezzo a noi, come quelle dei tanti che sono vittime di violenze e sopraffazione e sequestri – spiega alle Sorelle Clarisse, a Vicoforte Santuario, p. Gigi Maccalli, missionario della SMA (Società Missioni Africane) per ben 752 giorni sotto sequestro in Niger e poi in Mali, liberato un paio di mesi orsono –: appena sbarcato dalla prigionia, a Roma ho voluto andare al cimitero per una preghiera sulla tomba di Myriam, testimone anche lei di tanto dolore nelle periferie del mondo. E a lei, sulla tomba, ho lasciato il rosario di stracci che mi ero allestito, per pregare, sotto il controllo dei miei carcerieri». P. Gigi Maccalli conta tanti amici nel Monregalese, a cominciare dal vescovo Egidio Miragoli che fu suo insegnante nel corso di Teologia a Crema. Ma anche c’è un legame forte con le Sorelle Clarisse, che p. Gigi aveva conosciuto una decina di anni fa, quando era a Genova e passò in Monastero a Vico prima di partire per la missione in Africa, tenendosi sempre in contatto epistolare. E poi nella SMA ci sono tuttora sacerdoti originari del Monregalese (p. Eugenio Basso di Frabosa, p. Lorenzo Rapetti di Cengio, p. Gian Piero Rulfi di Pianvignale). E pure don Alfredo Costamagna, benese, è stato aggregato alla stessa SMA. Insomma un “mondo” ecclesiale che gli è quasi familiare. «Ho infatti sentito misteriosamente al fianco il sostegno – ha continuato p. Gigi Maccalli – nella preghiera a distanza da parte di tanti. Per questo, un grazie forte alle Sorelle Clarisse che mi hanno sempre idealmente accompagnato e sorretto».
«Confesso che è stata una dura esperienza, quella del sequestro – confida poi in un dialogo molto pacato e lucido su quanto ha vissuto nel deserto per quei fatidici 752 giorni –. Mi sono ritrovato a tu per tu con l’essenziale. Ho cercato di mantenere il computo dei giorni in calendario, per avere riferimenti temporali, ed anche per memorizzare le festività in cui sentirmi in comunione con tutti i credenti. Mi sono aggrappato alla preghiera semplice, ogni giorno ripetendo le parole della consacrazione, per dire al Signore che gli offrivo me steso così com’ero. Mi sono misurato con tante domande, cruciali: ‘Ma Dio mi avrà abbandonato?’. Invece Lui misteriosamente, sostava con me, in quella terra riarsa e sterminata di sabbia, rispetto alla quale non sapevo dove geograficamente mi trovassi. Mi sono arrabattato per far bollire l’acqua e non berla quando era… gialla. Ho cercato di coprirmi a più non posso per passare la notte con sbalzi termici molto marcati: infatti ero sempre all’aperto, sotto appena un tendaggio tirato tra i rami di alberi senza foglie».
E i suoi carcerieri? «Erano giovani in larga parte analfabeti, ma solo abili a pulire e imbracciare le armi, con cui tenevano a bada i sequestrati – prosegue p. Gigi –. Qualcuno desiderava anche imparare qualcosa. Ho provato persino ad insegnare i numeri. Ma conoscevano poco il francese. Erano soprattutto indottrinati. Chi gestiva il sequestro era sopra di loro e magari altrove».
E l’incontro con Papa Francesco, al ritorno? «Mi sono commosso tanto – ha ricordato con gli occhi un po’ lucidi lo stesso p. Gigi Maccalli –. Quando mi ha baciato le mani, sono rimasto spiazzato. Gli ho detto ‘Grazie’, e lui mi ha risposto ‘Ma sei tu che sostieni la Chiesa, sei un martire!’. Ed ho capito come a Papa Francesco stiano a cuore le periferie del mondo; come sia attento e partecipe al cammino di un popolo di Dio, in cui ognuno fa la sua parte; come la missione debba essere annuncio e testimonianza, mai proselitismo; come non ci sia bisogno di risultati numerici nell’evangelizzazione ma di incontro con le persone. Infatti mi sono convinto, ancora di più, di quanto vale sulle frontiere del Vangelo: non contare chi c’era, ma ringraziare di aver potuto parlare di Dio al cuore di chi c’era. Insomma la pastorale della stuoia, come si dice in Niger, cioè della sosta, della pazienza, dell’ascolto, della condivisione, dell’apertura d’animo… fino a trovare un varco rispettoso al Vangelo che parte dai piccoli gesti».
E la missione di Bomoanga, in Niger, da cui è stato brutalmente rapito? «Sono in costante contatto telefonico. Avrei il desiderio di tornare almeno per un saluto ed un grazie. Ma il mio futuro non dipende da me…».
Grazie p. Gigi, per tutto questo

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