Tre poeti, vivono tutti all’ombra del Santuario senza tuttavia esserci nati. Sono testimoni di tre generazioni diverse, tre fasi distinte della nostra storia recente. Remigio Bertolino, Carlo Dardanello e Jacopo Ramonda sono legati da un fil rouge dai toni quasi romanzeschi, che attraversa tre personalità diversamente accomunate solo dalla passione per la letteratura e per la poesia. Per questo è affascinante soffermare lo sguardo su di loro, nel vasto panorama della poesia locale che è da sempre piuttosto vivace, anche e soprattutto a livello dialettale. Concentrarsi sui loro testi e sulle loro pubblicazioni consente di gettare uno sguardo sulla letteratura locale, sulla sua evoluzione e sui cambiamenti occorsi nel nostro territorio e nelle nostre vite, in tutti questi anni. Dei tre Remigio Bertolino (nella foto) è sicuramente il nome più noto. Montaldese di origine, ha iniziato a scrivere in dialetto dagli anni ’70, con racconti e con poesie. Ha pubblicato diverse raccolte, di cui le ultime sono del 2013 (La fin dël mond, testo che gli è valso il premio Pascoli 2013) e del 2015 (Litre d’invern, per Aragno Editore). La sua poesia dialettale mescola il gusto per il quotidiano, per le cose semplici, con aperture e squarci di profondità quasi metafisica. Ne è un esempio “L’eva d’ënvern” in un ambiente invernale, casalingo, è niente di meno che la morte a farsi il nido e a giocare a rimpiattino con l’io narrante, ormai defunto, confinato in un curioso limbo tra morte e vita, aspettando di essere finalmente portato in alto. I versi di Bertolino, estremamente rarefatti, spezzati, sanno farsi carico di una forza straordinaria. Scrive, significativamente: «Alla poesia è più affine il levare che l’aggiungere, il giustapporre, l’espandere». Si inscrive nella corrente neodialettale, con una nuova corrente di autori che iniziano a scrivere nei primi anni ’70 del Novecento, pur restando in qualche modo una personalità a sé, non accostabile ad altre voci o inscrivibile in alcuna tendenza. Il suo dialetto è una voce artistica che non si contrappone, ma si accosta all’italiano, come scriveva acutamente Giannino Balbis. Carlo Dardanello, torinese di nascita, vive anche lui a Vicoforte. Di Remigio Bertolino è amico ed ha diviso con lui la curatela di un’antologia di poeti locali. Autore di diverse raccolte parla la voce della tradizione piemontese, con cui esprime la meraviglia del mondo. Il tema è centrale nella raccolta “Le poisìe dla cantaran- a”: in “I veuj campeme” il poeta esprime tutto il giocoso stupore per l’essere vivi, il suo desiderio di abbeverarsi all’inebriante nettare del mondo, pur con il disincanto tipico del pascaliano “divertissement” rivisitato da tanta filosofi a novecentesca. Jacopo Ramonda, infine, è il poeta più giovane, scrive in italiano ed ha forse la voce più atipica, che si muove ambiguamente tra prosa e poesia. Nel 2018 ha pubblicato “Omonimie” curiosa gallerie di personaggi che condividono il nome, colti in una serie di istantanee di vita, come finestre, squarci sulla quotidianità nei suoi aspetti più paradossali, in un continuo gioco tra omologazione, punti in comune tra persone diverse e individualismo, peculiarità uniche di ciascuno.
Sentieri diversi/Poeti vicesi e lontani
Tre poeti, tutti vivono a Vicoforte senza esservi nati. Tre generazioni di poesia all'ombra del santuario. Remigio Bertolino, Carlo Dardanello, Jacopo Ramonda