di don CORRADO AVAGNINA
Si profilano giorni che dovrebbero riportarci un po’ tutti ad un sentire profondo, velato di mestizia, ma anche illuminato dalla fede. Sono a calendario infatti – lo sappiamo – la solennità di Ognissanti e la Commemorazione dei defunti. Non mancano, come è noto, distrazioni assortite, dalle trovate piuttosto grottesche di Halloween all’imperversare della gastronomia di vario tipo (tra l’altro, a Mondovì, all’insegna anche di un uno slogan che da sempre non ci è mai piaciuto molto), a formalità esteriori nel sostare ai cimiteri visitati magari con passo di corsa, a qualche esagerazione nei fiori e negli ornamenti sulle tombe quasi in ottemperanza ad un costume che rischia di fermarsi in superficie pure con un gesto di grande rispetto… Ma queste giornate contengono richiami decisivi, cui non ci si può sottrarre alla leggera, oltre ogni spunto depistante. C’è un primo messaggio coinvolgente, che interpella i credenti. E riguarda il distacco che la morte ingenera con le persone a cui si è voluto bene. Come guardare a questa frattura che provoca lacrime, sofferenza, dolore? “La nostra unione con i fratelli che sono morti nella pace di Cristo non è minimamente spezzata, anzi secondo la perenne fede della Chiesa, è consolidata dalla comunione di beni spirituali”, dice il Concilio. “Nell’accogliere la memoria dei defunti, la Chiesa l’ha proiettata – scrive Enzo Bianchi già priore di Bose – nella luce della fede pasquale che canta la resurrezione di Gesù Cristo da morte, e per questo ha voluto farla precedere dalla festa di tutti i santi, quasi ad indicare che i santi trascinano con sé i morti, li prendono per mano per ricordare a noi tutti che non ci si salva da soli. Ed è al tramonto della festa di tutti santi che i cristiani non solo ricordano i morti, ma si recano al cimitero per visitarli, come ad incontrarli ed a manifestare l’affetto per loro con un fiore sulla tomba: un affetto che in questa circostanza diventa capace di assumere il male che si è potuto leggere nella vita dei propri cari e di avvolgerlo in una grande compassione che abbraccia le proprie ed altrui ombre”. Insomma una preghiera che diventa comunione nello stesso Signore morto e risorto, che perdona. Intanto però c’è da misurarsi col pensiero, da non scansare banalmente, della nostra morte. Pur con la spogliazione interiore che tale consapevolezza induce, resta nella fede la luce su questo “passaggio” finale per tutti, che può tramutarsi da enigma che inquieta in mistero che non delude, della “vita non tolta ma trasformata” come dice la liturgia, nel Signore che ha attraversato la morte ed è ora il Vivente che tutti attende.